di Manuela Perrone
Lo scontro sui migranti è soltanto l’antipasto di quel che potrebbe succedere sui prossimi dossier, a partire dal Mes. Crimi agli alleati: «Non serve fase 2 del Governo, arriverà a fine legislatura»
Migranti, l’accordo indigesto
Quanto andato in scena sulla regolarizzazione dei migranti impiegati in agricoltura e nel lavoro domestico, con l’accordo raggiunto e rimangiato nel giro di qualche ora per poi essere nuovamente sottoscritto, è soltanto un assaggio di quel che potrebbe accadere, alla luce del caos dentro il M5S. «Suddividerci tra progressisti di sinistra e sovranisti di destra è una grossolana semplificazione», osserva un senatore. «La verità è che le perplessità su quella norma serpeggiano in almeno i due terzi dei gruppi parlamentari. Alla fine è stato detto sì all’intesa soltanto perché l’alternativa era far cadere il Governo. Ma la frattura potrebbe riproporsi durante l’iter del decreto Rilancio alle Camere. E sul Mes, che è un tema ancora più identitario, che cosa succederà?».
Il rapporto con Conte
Qui entra in gioco il rapporto ambivalente con il premier. Perché anche i ministri M5S meno vicini a Conte riconoscono che «non ci sono alternative: non accetteremmo mai un presidente diverso né un allargamento della maggioranza ad altre forze politiche» (leggasi: Forza Italia). Ma «basta ingigantire le difficoltà del M5S per nascondere le difficoltà di Conte», si lasciano scappare fonti governative pentastellate, secondo cui anche il problema del Fondo Salva-Stati «è del presidente del Consiglio, che aveva detto “no al Mes, sì al Recovery Fund”, non nostro». Qui la strategia di Conte resta quella di strappare un compromesso onorevole per l’Italia sul Fondo per la ripresa e far votare il Parlamento sull’intero pacchetto europeo anti-crisi, senza incagliarsi sulla sola autorizzazione a chiedere il prestito Mes. Che per gli alleati sarà un passaggio inevitabile: la convinzione, tra democratici e renziani, è che l’Italia non può rinunciare a quei 36 miliardi, peraltro con l’unica condizione che siano spesi per affrontare i costi sanitari, diretti e indiretti, della pandemia.
La doppia debolezza ai vertici
La tenuta del Movimento è però un’incognita. Pesa la doppia fragilità, ormai evidente: un capo politico debole, Crimi, che doveva essere un reggente per un paio di mesi e che invece si trova al timone del partito di maggioranza relativa durante i mesi più bui dal dopoguerra; un capodelegazione altrettanto fragile, Bonafede, criticato per la gestione delle carceri e non particolarmente amato neppure dai suoi parlamentari che gli contestano lo scarso dialogo e confronto. È normale che i punti di riferimento siano rimasti altri: l’ex leader Luigi Di Maio, che dagli Esteri si è comunque ritagliato un ruolo centrale nel Governo, l’outsider Alessandro Di Battista, punto di riferimento di tutti gli scontenti del Governo con il Pd, e il presidente della Camera, Roberto Fico, che continua a essere il centro di gravità della cosiddetta “ala sinistra”. Anche se qualcuno ironizza: «Quanti sono i fichiani? Venti su 300?».
Grillo e Casaleggio, diarchi fragili
Pesa un altro indebolimento progressivo, quello degli (ex) diarchi, sempre più appannati. Da un lato Beppe Grillo, il garante, che si limita a intervenire soltanto quando occorre blindare Conte (e con Conte questo Governo). Dall’altro lato Davide Casaleggio, inviso a gran parte dei parlamentari per il caos restituzioni e l’obolo di 300 euro al mese versati alla piattaforma Rousseau, di fatto inutilizzata in questi mesi fino a oggi giovedì 14 maggio, quando si vota per decidere a quali progetti tra quelli presentati dalle scuole della propria regione nell’ambito dell’iniziativa “Facciamo Ecoscuola”, destinare gli oltre 3 milioni di euro del taglio degli stipendi.
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