Il 32% dice “no” e il 39,4% si oppone alla possibilità per i consiglieri comunali di candidarsi durante il secondo mandato e interromperlo in caso di elezione. Ma la consultazione ha interessato solo un quarto degli aventi diritto
di Manuela Perrone
C’era una volta il Movimento, dalla democrazia diretta al mandato zero
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Nessuno si aspettava una bocciatura, naturalmente: le votazioni su Rousseau hanno sempre ratificato le proposte sottoposte agli iscritti. Anche oggi ai cinque quesiti sui cinque assi della riorganizzazione M5S proposta da Luigi Di Maio sono arrivati altrettanti “sì”. Ma si intravede uno spiraglio di dissenso: il 32% dei circa 25mila votanti ha detto “no” al mandato zero per i consiglieri comunali e il 39,4% si è espresso contro la possibilità di candidarsi durante il secondo mandato e di interromperlo in caso di elezione.
Due considerazioni sono d’obbligo. La prima è che la riorganizzazione, nonostante l’ironia virale sui social, ha interessato poco: se è vero che gli iscritti alla piattaforma sono 100mila, ha votato appena un quarto degli aventi diritto. Circa 25mila votanti per ogni quesito. Una partecipazione davvero risicata, soprattutto se si considera che le “urne” online sono state aperte dalle 10 di ieri mattina alle 13 di oggi. E se si pensa che il tema oggetto della consultazione, ovvero la nuova forma partito che assumerà il Movimento, non è di poco conto perché trasforma radicalmente l’organizzazione nazionale e sul territorio.
La seconda riflessione riguarda le percentuali dei “no”, che nel caso dei due quesiti sul mandato zero (invenzione linguistica per far digerire la deroga alla regola fondativa del M5S) si muovono tra il 32 e quasi il 40%. Ricordando da vicino quanto è avvenuto il 18 febbraio scorso, quando gli iscritti si sono dovuti esprimere sull’atteggiamento da tenere in Aula al Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del leader della Lega Matteo Salvini per il caso Diciotti. Il salvataggio dell’alleato di Governo c’era stato, ma il 40,95% dei 52.417 votanti si era pronunciato a favore del processo.
Allora il deputato Luigi Gallo, fedelissimo del presidente della Camera Roberto Fico, aveva invitato a non liquidare semplicemente la votazione come un’approvazione. «Il 41% degli iscritti al M5S – aveva scritto su Fb – chiede ai vertici un cambio di passo e il ritorno ai princìpi del M5S. Il 41% è un numero enorme. È un 41% fatto di persone diffuse in tutto il Paese, sono carne e vita di cittadini attivi». Il monito di Gallo si concludeva così: «La Lega fa la Lega, il M5S deve fare il M5S».
Cinque mesi dopo, il Movimento naviga in acque agitate. E si è rivelato debolissimo in tutte le competizioni elettorali di quest’anno: dalle regionali alle europee, dove si è fermato al 17% contro il 32,7% delle politiche del 4 marzo 2018. La crisi di Governo non si è aperta, ma una crisi c’è, sia dentro il M5S (come dimostra lo psicodramma sulla Tav) sia nei rapporti con la Lega e adesso persino nella relazione con il premier Giuseppe Conte. Quel “partito del 41%” continua a farsi sentire, seppur finora senza incidere in alcun dossier.
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