Il mainstream del dibattito politico italiano concorda su un fatto: Matteo Salvini è l’uomo forte. Chi lo avversa evoca un inquietante pericolo per la democrazia, mentre chi lo sostiene non desidera altro che un condottiero politico torni ad abitare il potere romano. Esplicito subito la tesi di questo articolo: Matteo Salvini non è l’uomo forte, ma il più riuscito prodotto del dissolvimento della politica nella società dello spettacolo (un fenomeno che Guy Debord aveva previsto cinquant’anni fa). Ma andiamo con ordine.
Negli anni ’90, in Italia, si sono sovrapposti due fenomeni: il consolidarsi di un accresciuto potere televisivo generato dai rilevanti mezzi impiegati nelle lotte duopolistiche tra Rai e Fininvest e – dal 1993 – il vuoto di potere e di ceto politico generato dalle inchieste di Mani Pulite. Inevitabile è stato il congiungimento di questi due fenomeni attraverso l’occupazione della scena politica da parte di Silvio Berlusconi. Come nel Mocambo di Paolo Conte, il curatore del fallimento “era anche il padrone di tutti i caffè”.
L’egemonia berlusconiana ha progressivamente cancellato il DNA delle antropologie politiche tradizionali. Siamo giunti, soprattutto in Italia, al punto che la politica non sia ormai più in grado di prescindere dal mezzo televisivo. Si tratta della dimostrazione di come essa venga totalmente riassunta nei canoni della società dello spettacolo. Il nuovo scenario venutosi a creare, tuttavia, reclamava una antropologia politica diversa da quella del “padrone di tutti i caffè”. È qui che comincia a emergere Matteo Salvini.
In prima battuta, la leadership politica si è incarnata nella parabola renziana (anch’essa largamente debitrice dell’immaginario televisivo), ma le scorie delle tradizioni politiche da cui discendeva (ben simbolizzate dal celebre «Enrico stai sereno») ne hanno rapidamente decretato la fine. Matteo Salvini, al contrario, ha rinunciato a ogni eredità del passato (non solo perché quella di Bossi gli aveva lasciato un bel po’ di debiti…) e, sul piano psicoanalitico, ha rapidamente “ucciso il padre” senza portarne alcun rimorso. La sua Lega è divenuta un contenitore politico talmente neutro da riuscire anche a cancellare il proprio peccato originale (la Padania e il sogno secessionista).
In termini ideologici, Salvini mostra, con sincera e compiaciuta baldanza, come il passaggio “dall’essere all’avere” – che caratterizzava la critica marxista all’intelaiatura capitalistica del potere politico – in lui venga sublimato nel successivo passaggio spettacolare – e qui si torna a Debord – “dall’avere all’apparire”. Nella percezione della figura politica di Matteo Salvini, infatti, non si respira alcuna bramosia di potere. Che sia stato un errore o una mossa geniale, è un fatto che in agosto abbia lasciato una posizione molto comoda. In questa mentalità dissipativa sul piano del potere, c’è una autentica rivoluzione rispetto all’idea politica che ereditiamo dal passato, interamente finalizzata all’ottenimento del potere e al suo utilizzo. In Salvini, ogni dinamica di potere viene sostituita dalla dinamica di un consenso che basta finalisticamente a se stesso. Anche le suggestioni più cruente, dalle ruspe ai porti chiusi, in realtà rimangono funzionali alla conquista di un consenso interno alla rappresentazione mediatica. La giustificazione politica (la cosiddetta “campagna elettorale permanente”) assume solo il senso di dare una motivazione conosciuta a un fenomeno ancora da comprendere.
Insomma, Salvini desidera essere una tigre di pezza perché, con intelligenza mista a intuito politico, ha capito che oggi la superficie politica è esclusivamente quella del palcoscenico mediatico, dove le figure diventano virtuali, i problemi immaginari e gli animali di pezza. Ogni sua battaglia è interna al ring mediatico e digitale. Fuori c’è un mondo che gli è estraneo. Dall’azione della magistratura alla rappresentanza degli interessi, la struttura del reale rimane del tutto separata dalla logica politica sovrastrutturale di Salvini. Non è un caso che egli – io credo in piena buona fede – rimanga stupefatto di fronte alle vicende giudiziarie che lo riguardano (dalle navi ferme fuori dai porti ai 49 milioni di debiti della vecchia Lega) e non sappia cosa rispondere (manifestando una totale estraneità alla questione) sulla necessaria ricerca di risorse e di interessi economici da rappresentare che, infatti, si sono concretizzati attraverso grotteschi tentativi degni della fantasia comica di un “Totò e Peppino a Mosca”.
Se non fosse per l’esigenza spettacolare di un capro espiatorio che, purtroppo, produce conseguenze reali sui pochi malcapitati oggetto dei suoi strali (dai Rom che vivono nel nostro paese ai profughi che incappano in eccessi di rigore normativo), l’agire di Salvini sarebbe del tutto innocuo. Anche la fisiognomica – che pure va maneggiata con cautela – aiuta la comprensione del personaggio. Salvini, nella sua soddisfatta e paciosa corpulenza, non è grasso e nemmeno magro. Non rimanda ad alcuno dei vizi della fisiognomica, dalla rabbia alla lussuria. È una specie di Babbo Natale che, pur avendo a che fare con le sperdute e pericolose distese disabitate della tundra, desidera solo portare doni e piacere a tutti. Se fosse per lui, il nemico ideale da inserire nel copione di una politica resa spettacolo sarebbero gli alieni, cioè una comunità invisibile di cui si sa solo che potrebbe distruggere l’umanità.
Il 2020 potrebbe partire da questa consapevolezza: Salvini non fa paura e, come tutti i fenomeni virtuali, quando scomparirà (prima o poi tutti le avventure politiche finiscono) non lascerà alcuno strascico. Anche le parole velenose che, oggettivamente, il leader della Lega mette in circolo, restano prive di futuro, poiché si imprimono solo sui copioni destinati al palco mediatico. Se stessimo parlando di parole finalizzate a un’azione (“le parole sono pietre” della cultura politica novecentesca), le conseguenze sarebbero evidenti nei vissuti degli italiani e non solo nella propaganda delle sardine. Non dimentichiamoci che del fascismo sono presenti ancora scorie dopo settant’anni dalla sua fine. Della DC e del PCI qualcosa è comunque sopravvissuto anche nella mentalità del presente. Di Berlusconi, almeno sul piano del linguaggio, alcuni elementi sono divenuti strutturali (ad esempio, l’uso politico della metafora calcistica). Di Salvini, invece, non resterà nulla (a meno che non lo si voglia imitare).
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