Fate questo esperimento. Prendete i titoli delle agenzie e delle interviste di ministri e dirigenti del Partito democratico – a cominciare dal segretario, naturalmente – e confrontateli con quelli degli altri partiti. Da un lato (gli altri) si parla di salario minimo (Di Maio), Iva (Renzi), ticket sanitari (Speranza), flat tax (Salvini). Dall’altro, il catalogo è il seguente. «L’appello di Nicola Zingaretti: basta litigi» (primo risultato che esce, alle ore 14 di giovedì 2 ottobre, digitando su google il nome del leader del Pd); «Libereremo risorse dal 2020, subito dopo la manovra parte la spending review» (Roberto Gualtieri, intervista al Corriere della Sera); «L’Europa non è un bancomat» (Enzo Amendola, intervista al Foglio). E questo solo nella giornata di ieri.
Dopo la breve ma intensa parentesi renziana — caratterizzata dall’eccesso opposto — il Pd sembra essere rapidamente rifluito sulle sue posizioni tradizionali, ben riassunte nel tragico slogan del centrosinistra prodiano: «La serietà al governo». In breve, il partito della responsabilità e della stabilità, del più scrupoloso rispetto dei vincoli di bilancio e delle compatibilità internazionali. Posizioni tradizionali perché iscritte nel suo codice genetico, radicate nell’esperienza di governo e nella cultura politica dei suoi gruppi dirigenti prima ancora che il Pd nascesse, sin dai primissimi passi del centrosinistra negli anni novanta. Non per niente, quando voleva caricare la folla dal palco di una festa dell’Unità con l’orgogliosa rivendicazione dei risultati ottenuti, il fior fiore della classe dirigente dei governi dell’Ulivo e dell’Unione, al primo punto dell’elenco metteva sempre l’avanzo primario, come non avrebbe fatto nemmeno il più arcigno dei conservatori tedeschi a un congresso della Cdu. Un cavallo di battaglia ripetuto fino allo sfinimento, ancora per tutto il 2013, prima che la stagione renziana spingesse molti a riscoprire una radicalità ideologica che appare del resto già ampiamente rientrata.
Dall’autoimmolazione dei democratici bersaniani nel sostegno al governo Monti fino alla fine della legislatura, sempre in nome della responsabilità e dello spirito di sacrificio («Non voglio governare sulle macerie») alla lenta agonia del governo Gentiloni (apprezzatissimo dagli editorialisti, un po’ meno dagli elettori), il Pd è diventato il partito che dice al paese di mangiare le verdure e andare a letto presto. Con un di più di retorica, spesso stucchevole, sulla dura necessità di andare al governo per la salvezza del paese. Una retorica tanto più irritante perché impiegata nel giustificare prima le larghe intese con la destra, per fare argine al populismo, e poi l’alleanza con i populisti, per fare argine alla destra.
La composizione del governo, con esponenti del Pd all’Economia e agli Affari europei, e persino della Commissione europea, con un democratico di punta come Paolo Gentiloni agli Affari economici, rispecchia una divisione dei ruoli con gli alleati piuttosto insidiosa, in cui a questi vanno i maggiori dicasteri di spesa, mentre al Pd resta il ruolo del guardiano dei conti e del rapporto con l’Europa. Una posizione che non sembra certo la più favorevole per raccogliere consensi.
Sta di fatto che il Pd, anche per le ragioni storiche e di cultura politica appena ricordate, non mostra la minima intenzione di uscire dall’angolo, e dalla conseguente afasia. Di qui anche la marcia indietro sul proporzionale, nell’ottica — già esplicitamente dichiarata da D’Alema in un’intervista al Corriere della Sera — del grande e definitivo abbraccio con i grillini in un nuovo grande centrosinistra a cinque stelle, che vada per l’appunto da D’Alema a Di Maio. Una logica doppiamente autodistruttiva: in primo luogo perché, anche volendo insistere sulla strada dell’alleanza giallorossa, è evidente che la somma delle due forze in un unico indistinto carrozzone maggioritario darebbe un risultato inferiore a quello che le due forze otterrebbero divise (errore che i gialloverdi, nel 2018, si sono ben guardati dal commettere). E in secondo luogo perché, una volta ristabilito per legge il bipolarismo di coalizione, il Pd diverrebbe immediatamente, giocoforza, il partner più debole dell’alleanza, perché privo di alternative (al contrario dei cinquestelle) e dunque costretto all’accordo a qualsiasi costo.
Di conseguenza, logica vorrebbe che tanto chi punti a proseguire sulla strada dell’alleanza giallorossa quanto chi punti a chiuderla il prima possibile, dentro il Pd, puntasse sul proporzionale. Il problema è che per scommettere su un sistema in cui ciascun partito si presenta con il proprio simbolo, il proprio programma, le proprie parole d’ordine e le proprie bandiere, bisogna averceli, programmi, parole d’ordine e bandiere proprie. E la serietà non è una bandiera. È senza dubbio una precondizione necessaria – fermo restando che in questo campo non vale l’autocertificazione – ma non può essere l’unica motivazione di voto. Anche perché gli italiani, dopo averli provati, quelli della serietà al governo hanno sempre mostrato di preferirli all’opposizione.
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