«Le parole di Bossi sul disagio del nord esprimono quello che pensano molti in Lega» – dice un deputato leghista nei corridoi di Montecitorio, semideserti come ogni lunedì – «ma sono cose che può dire solo Bossi» aggiunge, tagliando corto.
Una frase che, anche nel modo, dice tutto dell’atmosfera che si respira nel Carroccio dopo la sconfitta in Emilia Romagna che i leghisti raccontano come un successone, ma con quella faccia un po’ così che hanno quelli che avevano aspettative diverse.
È la stessa atmosfera fatta di tensione e felicità artificiale che s’avvertiva al consiglio federale del partito qualche giorno fa, dove l’annunciata “ristrutturazione” della Lega, con il commissariamento degli organi del partito nordista e il varo del soggetto “Lega Salvini premier”, è stato accolto all’unanimità senza un accenno nemmeno timido di dibattito. E naturalmente senza che il disagio, serpeggiante, abbia osato esprimersi in parole.
«Noi abbiamo un leader» dice continuamente il neo responsabile del dipartimento esteri Giancarlo Giorgetti, dove il tacito sottinteso è che il prezzo di avere un capo e in particolare un capo come Salvini è che non si discute. Almeno pubblicamente.
In camera caritatis però le considerazioni sono altre. E altre le riflessioni. Il ragionamento che esemplifica il disagio leghista sostanzialmente è questo: è vero che Salvini ha portato il Carroccio al 30% ma con la sua Lega nazionale ha snaturato la ragione sociale per cui era nato.
L’autonomia, sacrificata alla ragion di stato, resta un miraggio come quello di fata Morgana. Ma c’è dell’altro: dopo la crisi di governo agostana – aperta di fatto da Salvini al Papete – e ancora di più oggi dopo la sconfitta in Emilia, la Lega si sta profilando sempre di più come un movimento di opposizione di massa, più una forza di lotta che di governo. Un terreno infido che dà consenso, instabile, ma non dà autorevolezza e dove per motivi storici sembra trovarsi più a suo agio Giorgia Meloni, l’alleato-competitor che per la sua costante ascesa comincia a impensierire quadri e vertici leghisti.
“Noi abbiamo un leader” ma la chiosa, ovviamente non detta, è che Salvini comincia ad essere un leader pesante e ingombrante.
Luca Zaia, per dire, governatore veneto e di nuovo candidato alle prossime regionali, ha già fatto sapere a Salvini, con tutta la cortesia e il riguardo possibili, che alla campagna elettorale basteranno lui e i quadri veneti. Che insomma il Capitano non si disturbi a ingaggiare una campagna elettorale paese per paese, sagra per sagra come quella che Salvini ha fatto in Emilia. Dove certo hanno pesato i fattori della personalizzazione e la scelta d’un candidato debole come Lucia Borgonzoni ma dove soprattutto ha pesato il fatto che Salvini ha snaturato, con la sua strategia presenzialista, la logica tradizionale leghista il cui punto di forza è sempre stato una classe dirigente locale in grado di presidiare il territorio. Fattore che al nord ha sempre determinato il successo di lunga durata della Lega.
La situazione attuale, dunque, è un terreno fertile per il dissenso interno su cui soffia a pieni polmoni un oppositore storico a Salvini, Gianni Fava, il leghista lombardo che guida la minoranza interna del Carroccio al Consiglio federale: «Bastava parlare di autonomia invece di suonare ai citofoni, la gente sta tornando ad aver bisogno di contenuti nel messaggio politico e gli slogan cominciano a essere sempre meno efficaci».
L’analisi che vien fatta negli ambienti più vicini a Giorgetti – circuiti politici e imprenditoriali – è che il protagonismo assoluto di Salvini sta impedendo alla Lega di esprimere e far maturare una classe dirigente locale e soprattutto nazionale in grado di fare sistema, oltre che di urlare. Basta pensare all’ipotesi che Salvini ha messo in campo per la corsa delle regionali pugliesi dove il suo ideale candidato governatore dovrebbe essere Massimo Casanova, eurodeputato suo amico, e proprietario dell’ormai fatidico – anzi fatale – Papeete.
Un problema, quello della deriva sensazionalistica salviniana – materiata di casting e intemerate come quella del citofono – che Giorgetti non vuole e non può affrontare direttamente con il suo leader, e che perciò tenta di aggirare a modo suo, con felpata prudenza, immaginando una soluzione tampone.
L’idea del numero due di via Bellerio, che potrebbe essere anche avallata dal leader leghista, è costruire, in occasione dei prossimi confronti amministrativi regionali, liste civiche di ispirazione moderata e liberale che sostengano il centrodestra e siano capaci di aggregare e dare rappresentanza a esponenti della società civile. Il modello insomma dei comitati civici che ha preso a funzionare anche nel centrosinistra, e che dovrebbe funzionare da camera di compensazione rispetto all’imbarazzo che suscita nel mondo dei cosiddetti ceti riflessivi l’asse Pd-Cinquestelle.
Del resto fa riflettere nel centrodestra e in casa leghista il fatto che Salvini faccia il pieno nelle aree geografiche non urbane e invece non sfondi nelle città. Un dato che i più avvertiti non se la sentono di liquidare con la battuta della “sinistra Ztl”.
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