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Nessuno si oppone all’autonomia delle regioni del Nord (eppure è la riforma più pericolosa di tutte)

C’è qualcuno capace di intestarsi la battaglia contro il Regionalismo Differenziato con almeno metà dell’energia usata contro la riforma costituzionale di Matteo Renzi? Esiste in Italia un’opposizione capace di dire che un tema come questo non può essere deciso da un accordo bilaterale tra Governo e Regioni ma deve passare per il Parlamento? Perché l’unica “vera” riforma in cantiere, la sola che porterà conseguenze di lungo periodo negli assetti italiani – è anche la meno criticata, contestata, attenzionata, al punto che non si conosce nemmeno il testo-base su cui si sta lavorando? Sono le domande da porsi all’indomani dell’ennesimo, misterioso vertice a Palazzo Chigi su questa nuova autonomia, un progetto che cambierà volto al Paese: nella migliore delle ipotesi trasformandolo in una sommatoria di potentati regionali e nella peggiore scardinando l’articolo 117 della Costituzione, quello che attribuisce la potestà legislativa allo Stato e lo obbliga a garantire gli stessi diritti civili e sociali a ogni cittadino su tutto il territorio della Repubblica.

Non si tratta di una piccola questione amministrativa che riguarda solo alcuni territori, ma di una svolta politica di prima grandezza che tocca l’intero Paese e deciderà il suo futuro. Se ne sa pochissimo. I testi su cui si sta contrattando riguardano le tre regioni che ne hanno fatto richiesta – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – ma un dibattito pubblico sul tema è impossibile perché sono praticamente secretati. Per l’opposizione di sinistra potrebbe essere un gran cavallo di battaglia, e anche Forza Italia e Fratelli d’Italia – due partiti “nazionali” fin dalla denominazione – potrebbero farne il perno di una opposizione finora poco più che formale. E invece no. Se ne parla poco, con timidezza, da una parte – a destra – bloccati dalle intese con la Lega sui territori, dall’altra – a sinistra – dalla scelta del governatore emiliano Stefano Bonacina di agganciarsi già nel 2017 al carro autonomista e di farlo proprio.

Potremmo chiamarla Sindrome di Stoccolma. L’intero quadro politico prigioniero degli interessi di una minoranza numerica – Veneto, Lombardia ed Emilia, ammesso che tutti i residenti siano favorevoli, contano meno di un terzo della popolazione italiana – e probabilmente anche politica visto che in un referendum di carattere nazionale il progetto autonomista sarebbe di certo perdente. E, più oltre, in balia di una favola, quella secondo cui la scuola, i beni culturali, la sanità, persino le politiche energetiche o la politica estera, gestite dalle Regioni sarebbero migliori e più efficienti di quelle governate dallo Stato centrale.

Ma l’illusione ottica collettiva riguarda anche altro. La percezione corrente è che questo Regionalismo Differenziato non sia una riforma di “serie A”, sia meno importante – per dire – della riforma costituzionale su cui il Paese si dilaniò per un anno fino al referendum del dicembre 2016. Al contrario, potrebbe produrre per il comune cittadino esiti più rapidi e peggiori. Qui non c’è in ballo qualche centinaio di posti in Parlamento o sistemi di bilanciamento tra poteri piuttosto oscuri per gli elettori. Qui si parla delle risorse pubbliche disponibili per la formazione dei nostri figli, per le prestazioni sanitarie, per la protezione civile in caso di eventi catastrofici, per l’ambiente, per il rischio sismico, per gli infortuni sul lavoro.

Ogni quantificazione è impossibile – come si è detto le bozze in discussione sono off-limits – ma è ovvio che permettere alle tre regioni del Nord di trattenere una quota maggiore dell’Irpef e di altri tributi erariali generati sul territorio significa sottrarli al resto degli italiani. Tuttavia, il tema che dovrebbe allarmare di più non è economico ma riguarda la potenziale disgregazione dei fattori generativi dell’unità nazionale, a cominciare dalla scuola pubblica e dalla tutela dei beni paesaggistici e culturali che costruiscono la nostra identità comune: venti sistemi di istruzione diversi, venti diverse sensibilità e direttive sul patrimonio immateriale della Repubblica, significano un’Italia kaput.

Davanti a questo passaggio storico servirebbe il coraggio di sottrarsi al piccolo cabotaggio politico. È vero, il Pd – ancora stordito dall’esito del referendum – quattro giorni prima delle Politiche del 2018 sottoscrisse con Paolo Gentiloni i preliminari dell’Autonomia Differenziata, terrorizzato dall’idea di sparire dalle regioni del Nord se non lo avesse fatto. È vero, Forza Italia e Fdi sono alleati della Lega sul territorio, ed è difficile soprattutto al Nord smentire la principale proposta del principale partner. E tuttavia, adesso, questa partita è la sola sulla quale l’opposizione possa ritrovare spazio e credibilità, essere qualcosa di più di un figurante che insegue l’agenda del governo gialloverde.

Tra l’altro, il consenso popolare che circonda questa riforma può essere ritenuto quantomeno dubbio. In Lombardia, al referendum, andò a votare solo il 38 per cento degli aventi diritto: 3 milioni di cittadini su sette e mezzo di elettori. In Veneto la percentuale è stata più alta, 56 per cento, anche per la colossale campagna referendaria finanziata dalla Regione con un milione e 200mila euro, ma comunque tutt’altro che plebiscitaria. In Emilia Romagna la linea autonomista non ha certo premiato il Pd né ha facilitato il suo tentativo di arginare la Lega: Ferrara e Forlì sono state perse, alle Europee il Carroccio si è piazzato al primo posto, le prossime Regionali risultano altamente a rischio in tutti i sondaggi. Allo stesso modo, Forza Italia e Fdi non sono state avvantaggiate dall’azione fiancheggiatrice, anche perché come è noto tra originale e copia l’elettore sceglie sempre l’originale. Insomma, una riflessione sulla convenienza anche politica di uscire dalla Sindrome di Stoccolma sarebbe opportuna per tutti.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/07/10/regionalismo-differenziato-lombardia-veneto-emilia-romagna/42820/

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