C’è qualche cosa di antico in quel «Forza Giuseppi» lanciato da Donald Trump per incoraggiare la nascita del governo Conte bis. Un endorsement cui segue la benedizione abbastanza esplicita di diversi leader europei durante il lavori del G7. Qualcuno parlerà di ingerenza, ma si può soltanto constatare che, nel passato remoto e recente, questi sostegni diretti o indiretti ci sono sempre stati, peraltro con esiti e auspici diversi, se conteggiamo in proposito anche le aspettative russe.
La benedizione del #BisConte ha un significato politicamente importante, di cui dovrebbero tenere conto non solo, come è ovvio, il governo nascente e le forze politiche che lo sosterranno, ma anche le classi dirigenti e l’opinione pubblica, così timida, salvo il rinsavimento delle ultime settimane, di fronte all’offensiva politica e mediatica, brutale e volgare, di Matteo Salvini, che nella sua avanzata ha messo in discussione e a volte ferito la convivenza civile, le basi del diritto, il senso delle istituzioni, la collocazione internazionale dell’Italia fino ad invocare «pieni poteri».
È evidente in Europa, ma comincia ad esserlo negli Stati Uniti, persino nell’entourage di The Donald, la presa di coscienza del pericolo rappresentato dai vari sovranismi e dal nazionalismo populista, pericolo per fortuna arginato alle elezioni europee, ma non ancora sconfitto. Sembra che molti si siano messi improvvisamente a rileggere la Storia del diciannovesimo secolo. O possiamo più modestamente chiamarla iniezione di realismo e – per quanto riguarda la personalità e la figura di Giuseppe Conte – la dimostrazione che in politica, estera o interna, le valutazioni della posta in gioco, i rapporti di forza, gli interessi concreti delle singole nazioni, contano molto di più. Molto meglio se agli ingredienti si aggiungono l’esperienza e la «statura» da statista, ma nel caso italiano, dopo il Papeete e la decadenza felice, anche la simpatia e l’eleganza, il basso profilo e il rispetto, possono bastare.
Il sostegno di Trump al governo Conte significa, oltre al caloroso auspicio di un governo stabile e duraturo, la presa d’atto che i tentativi di disgregazione dell’Europa, dall’interno, da Est e persino da Ovest (ricordiamo le campagne di Steve Bannon) sono per il momento falliti. E hanno trascinato al ribasso le azioni dei vari leader populisti, alcuni dei quali, come il consumato Viktor Orban, hanno avvertito in tempo la puzza di bruciato, mentre altri, come il Capitano spiaggiato, hanno pensato che i due forni fossero a Washington e a Mosca, mentre l’unico che conta per l’Italia sta a Bruxelles.
Il merito di «Giuseppi», l’eroe dei due «mandati», è di averlo capito in tempo, con insospettata astuzia politica, quando si è sfilato con toni durissimi dall’alleato Salvini e al tempo stesso ha preso le distanze, come parte terza e non come parte in causa, dal M5S che lo aveva scelto. Non sappiamo se in questa operazione abbia pensato alla strategia che ha portato all’Eliseo lo sconosciuto Macron, ma oggi il presidente francese e il gioco di pescar consensi a destra e a sinistra, collocandosi in un centro deideologizzato, con l’Europa come unica stella polare, sembra un riferimento obbligato.
La lezione del G7 di Biarritz va ovviamente molto al di là del nostro «Giuseppi». L’endorsment al Bisconte è la parte per il tutto. Grazie sopratutto all’attivismo diplomatico di Macron, hanno ritrovato senso e consistenza il concetto di multilateralismo e le sue varianti, il dialogo bilaterale e la cooperazione fra singoli Paesi quando non è possibile un approccio globale. Mentre le istituzioni internazionali (e gli stessi vari G grandi) segnano il passo per impotenza e veti incrociati, i tentativi egoisti di fare da soli – l’idea che l’interesse nazionale, peraltro mal calcolato, faccia aggio su tutto – mostrano crepe profonde e annunciano più tragedie che vantaggi sul breve e medio periodo.
Sembra essersene accorto in tempo e per primo Trump, arrivato a Biarritz con atteggiamenti meno aggressivi e arroganti che in passato. Ha avvallato la visita (una sorpresa che non era una sorpresa) del ministro degli esteri iraniano, ammettendo implicitamente che la mediazione francese sul dossier nucleare è possibile. Ha auspicato un dialogo costruttivo con la Cina sulla questione dei dazi e ha dato il via libera alla riammissione della Russia al G7/G8, grazie anche in questo caso all’iniziativa presa da Macron che aveva invitato Putin qualche giorno prima a Biarritz. Lo stesso Putin, al di là delle posizioni distanti su Ucraina e Crimea, sembra deciso a trovare la strada per spezzare il cappio delle sanzioni e riprendere una cooperazione economica di cui ha disperato bisogno interno, nonostante la posizione di forza – diplomatica, strategica e anche militare – sui più scottanti dossier : Siria, Libia, Iran.
Prima di coltivare eccessive illusioni e speranze, occorre ricordare che ancora qualche giorno prima Trump pensava di comperare la Groenlandia e avrebbe proposto di lanciare un’atomica contro i tornado che minacciano le coste americane. Che a Hong Kong è in corso un braccio di ferro dalle conseguenze imprevedibili, ma, al momento, la Cina continua a considerare la faccenda un affare interno (come del resto le questioni di democrazia e legalità a Mosca) e nessuna voce autorevole si leva per fare capire il contrario. Che il presidente brasiliano Bolsonaro, oggettivamente responsabile della tragedia dell’Amazzonia, ha rifiutato l’aiuto internazionale per fronteggiare gli incendi e fa sfoggio di machismo nazionale insultando la moglie di Macron. Che Boris Johnson viaggia su un’auto in discesa senza freni verso il no deal che sta già devastando con largo anticipo l’economia britannica e che conferma la più attuale definizione di stupido in politica: lo stupido è colui che pensa di avere un tornaconto danneggiando gli altri e invece danneggia solo se stesso e la propria famiglia. Ma anche lui, nelle ultime ore, sembra avere capito che nessuno si salva da solo e ha fatto prove di dialogo. E ieri, persino Bolsonaro, il pompiere incendiario, ha accettato che il mondo gli regali un po’ d’acqua.
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