Il caso Ilva è il primo atto di sabotaggio dei malmostosi parlamentari cinque stelle che Di Maio ha sacrificato per far nascere il Conte 2. Sono una trentina, guidati da Lezzi, Morra, Paragone e con la benedizione di Toninelli. Auguri. Solo in Italia può accadere che una fronda di trombati di un partito possano innescare un incendio politico. Ma nell’anno di grazia 2019 fra Montecitorio e soprattutto palazzo Madama capita che una pattuglia di senatori grillini col mal di pancia per ragioni puramente personali piazzino le armi pesanti contro il “Capo politico”. Per mettere in crisi lui ma forse senza nemmeno rendersi conto di scherzare col fuoco. Di mettere in crisi il governo.
Attorno al caso Ilva si sta creando infatti una tempesta perfetta nella quale una scatenata Barbara Lezzi vede l’occasione per far pagare a Di Maio la scelta di non averla confermata al governo. L’inventrice del maledetto emendamento che ha cancellato lo scudo penale per i nuovi padroni dell’Ilva ha fatto breccia nei cuori giustizialista e pseudo-anticapitalisti del grillismo puro e duro. E pazienza che con ciò si sia bruciato quello che Marco Bentivogli definisce “il cip d’ingresso” per i Mittal.
Dietro la Lezzi si agita una pattuglia di malmostosi di vario tipo, senatori che si sentono emarginati e che si ritrovano a seguire l’esplicita opposizione di Gianluigi Paragone, ministri mancati come il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, che già si vedeva ministro dell’Istruzione, mentre il super-trombato Danilo Toninelli non si fa vedere ma viene descritto come tutt’altro che scontento per la nascita della fronda anti-Di Maio. Così come super-irrequieta è descritta Giulia Grillo, fatta sloggiare dal ministero della Salute, che manovra qualche deputato.
Mercoledì sera, in un’ennesima riunione-sfogatoio dei senatori pentastellati proprio Morra ha osservato come ormai si sia entrati in piena “autocoscienza”, nel senso che di tutto si parla tranne che di politica, perlomeno nell’accezione nobile della parola, ed è tutto un susseguirsi di recriminazioni contro il Capo intervallata da qualche timida difesa del Capo medesimo.
Il quale invece di raccogliere la sfida e dare battaglia nel nome – che so – della compattezza della coalizione, continua nella sua ambigua posizione: raccogliere le istanze sedicenti “ambientaliste” con quelle venature infantilmente anticapitalistiche di cui si è detto e nello stesso tempo rassicurare Conte di non voler tirare troppo la corda e anzi vestendo i panni del martire («I miei non li tengo più»). La doppiezza del ministro degli Esteri lo insegue ai quattro angoli del mondo e, nel silenzio inquietante di Beppe Grillo, rende evidente il vero punto interrogativo della situazione: regge, Di Maio? Regge, il Movimento?
Si dice che i senatori “ribelli” siano fra i 20 e i 30. Non molti ma più che sufficienti per mandare il governo in minoranza. Teniamo conto che al Senato si è aperta, per ora solo in commissione, la discussione sulla legge di bilancio che in aula potrebbe essere impallinata più e più volte. Per questo la pressione del Pd, publica e privata, è fortissima. Ed è inutile dire che alla fin della fiera l’arma finale è la minaccia di andare alle urne in primavera: con un Movimento a pezzi che lascerebbe sul campo molti attuali parlamentari. Tipo Barbara Lezzi.
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