La sinistra mondiale è in piena crisi d’identità, dall’Italia agli Stati Uniti, passando da tutti i paesi europei. Non è ancora riuscita a trovare un modo di contrastare i populisti e i nazionalisti, ma nemmeno a risolvere gli ormai rilevanti problemi di personalità. Che cos’è oggi la sinistra occidentale? Nessuno lo sa, nemmeno la sinistra occidentale. Dopo aver dominato la politica globale cavalcando globalizzazione e innovazione, il progressismo degli anni Novanta, cioè Tony Blair, Bill Clinton e i loro epigoni, è passato di moda perché si è dimostrato incapace di governare le diseguaglianze causate dalla rivoluzione digitale.
La ricetta, di fronte a interi settori della società rimasti indietro rispetto ad altri che invece hanno fatto enormi passi in avanti, è diventata ideologica: ancora più globalizzazione, ancora più innovazione, segnalando i grandi passi avanti fatti dall’umanità e dimenticando gli scompensi creati dalla grande redistribuzione della ricchezza. La prima reazione è stata di rigetto, con gli elettori progressisti occidentali in fuga e alla ricerca di qualcos’altro che di volta in volta è stato individuato nei movimenti demagogici e populisti non importa se di destra o di sinistra. La seconda reazione, più intellettuale, è stata quella di tornare indietro ad abbracciare politiche socialiste e socialdemocratiche, abbandonate alla fine degli anni Ottanta.
Oggi, da una parte ci sono i sempre più sparuti difensori del liberalismo sociale che gli avversari chiamano in modo sprezzante neoliberisti, assimilandolo agli avversari di destra, quando in fondo sono soltanto socialisti assaliti dalla realtà. Dall’altra ci sono i promotori di una specie di socialismo del Ventunesimo secolo, una via di mezzo tra una parata di reduci dell’anticapitalismo e nuove generazioni alla conquista di maggiori diritti sociali.
La scena al momento è dominata da questi ultimi, i quali hanno vinto il dibattito interno in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Con risultati, però, non invidiabili, visto che perdono tutte le elezioni possibili.
Con l’eccezione della Francia, dove il presidente eletto è un “neoliberista”, e della Germania, dove resiste sempre meno Angela Merkel, al governo o pronti ad andarci in quasi tutto il mondo occidentale ci sono i populisti e i demagoghi, non i socialisti. L’inglese Jeremy Corbyn ha perso due elezioni, tre se si considerano pure le Europee, in pochi mesi: la prima contro una premier conservatrice debolissima, la seconda contro un elitario membro dell’establishment londinese che ha avuto la geniale idea di interpretare il ruolo di uomo del popolo. Nonostante avversari non irresistibili, il socialismo di Corbyn ha regalato alla sinistra inglese la più grande scoppola elettorale in 90 anni. Va anche ricordato, per dare un quadro più ampio, che i laburisti britannici hanno perso otto delle undici elezioni generali. Le tre eccezioni sono quelle del New Labour di Tony Blair, il principe delle tenebre neoliberiste. Non è controintuitivo, dunque, dire che in Gran Bretagna la sinistra vince solo quando è meno socialista e più liberale, meno old style e più moderna, sia adesso sia nei quattro decenni precedenti.
Negli Stati Uniti che si apprestano a scegliere lo sfidante di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali del novembre 2020, il dibattito è simile pur essendo diversi i punti di partenza. La svolta socialista impressa da Bernie Sanders prima, da Elizabeth Warren poi e adesso da Alexandria Ocasio Cortez (non candidata in questo ciclo elettorale perché non ha l’eta) sarebbe stata inconcepibile solo cinque anni fa, cosi come sarebbe stato inimmaginabile Donald Trump e molte altre cose che ormai sono all’ordine del giorno. Ma da allora la curvatura progressista è diventata mainstream, tanto che la notoriamente centrista Hillary Clinton alle elezioni del 2016 si è presentata con il programma economico e sociale più di sinistra della storia del Partito democratico. E sì, ha perso anche lei. La tendenza americani è la stessa che si nota in Europa, ma gli obiettivi dichiarati da Sanders, Warren, Ocasio-Cortez, e con più moderazione dagli altri pretendenti, sono di buon senso perché non può essere considerato altro che di buon senso vivere con una copertura sanitaria universale, con l’aspettativa per la maternità e con un’istruzione a prezzi accessibili. Anzi è proprio il fatto che queste cose non siano garantite nel paese più potente e ricco del mondo, negli anni venti del ventunesimo secolo, a essere considerato estremo e radicale.
Sanders è riuscito a imporre questi temi nel dibattito pubblico, Warren sta provando a far passare l’idea che si debbano tassare le grandi ricchezze, Ocasio-Cortez mobilita le generazioni più giovani collegando le politiche di giustizia sociale a quelle in difesa del pianeta. Il rischio che tutti vedono, però, è quello di un’eccessiva radicalizzazione, esattamente come è successo in Gran Bretagna con Corbyn, tanto che un recente sondaggio pubblicato dal New York Times, a fronte di tanto parlare di sanità e di istruzione per tutti, ha svelato che soltanto un elettore democratico su quattro vorrebbe eliminare il sistema di assicurazioni sanitarie private in vigore da sempre e sostituirlo con un sistema di copertura pubblica, ovvero solo uno su quattro degli elettori democratici sono favorevole a quanto propongono Sanders, Warren e Ocasio Cortez. E solo uno su tre, sempre tra i democratici, vorrebbe rendere gratuita la retta universitaria a tutti gli americani, a prescindere dal reddito, un’altra idea sostenuta da Sanders e Warren.
Ecco spiegato perché in testa nei sondaggi nazionali e nei primi due stati dove si voterà a febbraio, l’Iowa e il New Hampshire, ci sono due candidati democratici centristi, più riformisti che rivoluzionari, il vecchio Joe Biden e il giovane Pete Buttigieg. Quest’ultimo, in particolare, propone un sistema sanitario misto, pubblico per chi lo vuole e privato per chi si trova bene con le assicurazioni, mentre vuole rendere gratuite le rette universitaria, con l’esclusione di chi se le può permettere. Biden sembra sentire il peso dei suoi anni e la freschezza di Buttigieg non riesce a proiettare sufficiente autorevolezza, così è sceso in campo l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg, 77 anni, non un pivello, il quale pare sia pronto a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio personale per provare a vincere le primarie democratiche e poi battere Trump a novembre.
Il dibattito sulla sinistra, insomma, non si è ancora chiuso e probabilmente resterà aperto fino alle elezioni presidenziali americane perché chiunque vincerà le primarie, un rivoluzionario socialista o un riformista liberaldemocratico, sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere quale sarà la nuova direzione della sinistra globale e anche quella nostra.
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