La fuga degli elettori dal Movimento Cinque Stelle assume la proporzione di un esodo di massa. Solo in tarda mattinata conosceremo i numeri reali, ma le percentuali degli exit poll confermano la propensione, già vista in Abruzzo, per un disordinato “rompete le righe” che premia in misura variabile la Lega e il Pd. Dal 42 per cento delle politiche al 14-18 per cento di queste regionali, nell’arco di un solo anno: forse solo ai tempi del Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, oltre settant’anni fa, si era vista una così rapida liquefazione del consenso (e anche in quel caso a decretarla fu una tornata regionale sarda).
Nell’immaginabile processo a Luigi Di Maio e alla sua classe dirigente – un processo già in corso che culminerà nella ristrutturazione interna annunciata per domani – il capo di imputazione principale sarà la cedevolezza all’alleato, l’eccesso di spazio dato a Matteo Salvini su tutte le partite che contano. Le incertezze sulla Tav. Il caso Diciotti, col voltafaccia sul fronte della giustizia. I vaccini, le nomine, l’Ilva, la Tap e non da ultimo la rivolta del latte che ha visto i leghisti protagonisti quasi esclusivi della trattativa. E tuttavia le singole partite non sono così importanti davanti alla questione capitale del nuovo bipolarismo che va affermandosi nel Paese e polarizza le scelte elettorali: con Salvini o contro. Chi sta con lui lo voterà direttamente; chi è contro non si assocerà di certo al Movimento che a Roma è suo alleato e preferirà guardare dall’altra parte.
Lo abbiamo visto già succedere nel ventennio berlusconiano, quando la discriminante vera delle scelte politiche del Paese si avvitò sulla persona di Silvio, determinando il suo successo ma anche quello del fronte opposto, il Pd, che campò di rendita per molti anni sulla base di quella ossessione. Adesso accade di nuovo. Salvinismo e anti-salvinismo. Con lui o contro di lui. Il Movimento è fatalmente schiacciato da questo codice binario che non lascia spazio a terze opzioni e paga doppio l’accordo con Salvini perdendo voti in due direzioni perché chi ama il Capitano se ne va verso la Lega e chi lo detesta si affida all’opposizione.
Più in là, c’è la crisi del voto di opinione, categoria elettiva dei grillini e del decennio che ha visto la loro lenta e costante avanzata sull’onda di ideali “ideologici”: l’equità sociale, la lotta alla kasta, l’ambiente, le profezie millenariste di Gianroberto Casaleggio sulla democrazia della rete e la disintermediazione dei rapporti politici. Ha parlato ai cuori di molti generando speranze. Non solo il popolo matto dei terrapiattisti o dei cacciatori di scie chimiche, ma anche intellettuali, giornalisti e studiosi di vaglia, quelli che ormai producono quasi quotidianamente un autodafè: «Li ho votati e mi sono pentito». Ecco, in un Paese in recessione, incarognito dalle cupe prospettive economiche e dalle narrazioni tossiche su sicurezza, immigrati, futuro, il voto di opinione si ritrae. Non è più tempo di sognare l’Eden, ma di mettere al riparo quel che si ha, e anche in fretta.
Nelle prossime ore ci si concentrerà tutti sugli effetti che questo voto potrà avere sul governo e sulla sua immaginabile proiezione sulle elezioni Europee di primavera, la madre di tutti i test per il governo. L’idea che l’esecutivo possa passare indenne a un così brusco rovesciamento di equilibri appare piuttosto peregrina. Si poteva reggere al sorpasso salviniano ma difficilmente – se il modello sardo si replicasse – Palazzo Chigi sopporterà l’urto di un dimezzamento dei consensi del partito di maggioranza relativa.
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