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O me o il baratro: ecco perché Conte ha messo Salvini con le spalle al muro

 

Questa volta è stato un ultimatum vero, senza infingimenti, senza i soliti tatticismi. Una presa di posizione che rimanda la palla dall’altra parte del campo e mette con le spalle al muro Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E non importa se quest’ultimo, il leader del Carroccio, addirittura cinguetta mentre Giuseppe Conte, premier in carica, parla agli italiani in una sorta di streaming che ha fatto venire in mente la prima stagione del grillismo. No, non importa. L’avvocato del popolo fa sul serio. Non a caso a un certo punto taglia corto così: «Non vivacchio, o si va avanti o rimetto il mandato».

Perentorio. Il tutto, circa quaranta minuti a braccio, era stato preparato fino a notte fonda. Un discorso che a qualcuno ha ricordato l’intervento di Sergio Mattarella quando fallì il mandato esplorativo di Carlo Cottarelli. Ecco perché mormorano che dietro questa quarantina di cartelle ci sarebbe proprio lo zampino dell’alto Colle che da giorni manifesta una forte preoccupazione non solo per il mutamento del quadro politico, ma soprattutto per la situazione economica. I conti pubblici ballerini, lo spread che sale e scende a ogni dichiarazione antieuropeista di Salvini, la procedura di infrazione sul debito da parte della Commissione Ue che starebbe per gravare addosso al Belpaese. Insomma, un quadro impietoso fatto di questioni vere che hanno spinto Conte, sotto l’egida di Mattarella, a scendere in campo con una conferenza stampa irrituale ma necessaria a frenare gli istinti populisti del leader leghista che oramai, in tanti spifferano nel palazzo, «fa il premier e se ne sbatte di chi ha la corona». Ovvero, Conte.

Ecco, l’allievo di Guido Alpa ha strigliato in alcuni passaggi il vicepremier del Carroccio sottolineando come da qui in avanti non si scherza più sui vincoli fissati dalla Ue, sulla sterilizzazione dell’Iva, sulla flat tax. Patti chiari, amicizia lunga. Se Salvini si atterrà a questa condizioni bene, altrimenti un secondo dopo Conte salirà al Colle e rimetterà il suo mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Il quale quasi certamente non si augura un voto in settembre, a pochi giorni dalla manovra di bilancio. E non si augura quasi certamente che sia un Parlamento a trazione leghista – ops, nel frattempo il Carroccio in una sola settimana ha guadagnato altri due punti percentuali – a eleggere il successore di Mattarella.

Poi, certo, c’è tutta una narrazione che induce a pensare che la crisi sia già aperta. Sia già in atto. E che il messaggio di Conte indurrà uno dei due dioscuri a staccare la spina per tornare immediatamente alle urne. Anche perché all’interno dei cinquestelle i mugugni sono più dei sorrisi e si registra un dibattito accesso fra l’ala governista (maggioritaria all’interno dei gruppi parlamentari ndr.) che vuole restare aggrappata a questo esecutivo che vede come ultima scialuppa di salvataggio. E l’ala più movimentista che riporta al presidente della Camera Roberto Fico che spalleggia il Pd e la sinistra e sotto sotto desidera allearsi con il Nazareno.

Eppure non è tempo di crisi pilotate, o di ribaltoni. Qui, assicurano fonti qualificate, o si andrà avanti in questo modo con i gialli e verdi, oppure l’esperienza del governo del cambiamento finirà alle urne. Game over. Quanto alle Lega, le truppe di Salvini giurano e spergiurano che «Matteo vuole governare con i cinquestelle a patto che si facciano le cose». In sostanza, il ministro dell’Interno mette sul tavolo l’autonomia, la flat tax, la Tav. Poi si vedrà. Certo, se fosse Salvini a a far saltare il tavolo, magari provocando con qualche sparata le dimissioni di Conte, e poi sfuduciandolo in aula, se ne assumerebbe le responsabilità nero su bianco, anche davanti al Paese.

A tarda sera Di Maio assicura che «noi siamo leali e vogliamo metterci subito a lavorare». Ma solo un vertice a tre – Conte, Di Maio, Salvini – potrà sciogliere qualsiasi nodo. Anche perché fin qui è sembrato soltanto un gioco del cerino. Finiranno di giocare?

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