Sofferenti, precari, ma sempre connessi. Chi può emigra all’estero, chi non può resta e accetta stage gratuiti, contratti a tempo o lavori sottopagati rispetto al titolo di studio. I figli della crisi economica del 2007 non hanno scelta perché il governo si è dimenticato ancora una volta di loro. Come sempre negli ultimi 30 anni. Nella legge di bilancio appena approvata dal Parlamento, gli unici due provvedimenti su misura per le giovani generazioni sono il bonus assunzioni per gli under 35 e lo sgravio contributivo totale per i contratti di apprendistato di primo livello. Due misure utili ma insufficienti in un Paese in cui la disoccupazione giovanile è al 27,8%, il terzo tasso più alto dell’Unione europea dopo Grecia e Spagna.
Generalizzazioni? Non proprio. Basta guardare i tre report pubblicati dall’Istat nell’ultima settimana per avere una fotografia implacabile. In dieci anni sono emigrate almeno 816mila persone dall’Italia, 117mila solo nel 2018. Di questi tre su quattro (il 73%) sono giovani laureati con un livello di istruzione medio-alto. L’età media di chi emigra è 30 anni. Secondo il rapporto Bes 2019 quasi due milioni di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni sono in condizioni di sofferenza perché privati di alcune dimensioni necessarie per il benessere. Agli under 35 manca la completa soddisfazione in almeno due o più componenti tra salute, lavoro, relazioni sociali, qualità dei servizi, prospettive future e formazione. Però il 93% dei 15-24enni usa internet. Molto più rispetto a tutte le altre classi di età. Ma non basta scrollare il feed di Instagram e avere un abbonamento condiviso su Netflix per vivere una vita dignitosa.
Mes, flat tax, plastic tax, sugar tax, 80 euro, quota 100, reddito di cittadinanza, cuneo fiscale. Negli ultimi anni nel vocabolario delle promesse della politica manca la voce “giovani”. In tempo di voto liquido i partiti si rivolgono a gruppi coesi, capaci di fare pressione e protestare in modo sistematico: associazioni di categoria, pensionati, sindacati. Gli under 35 invece non riescono a fare sistema tra loro. Eppure ne avrebbero di motivi per essere arrabbiati. Basta leggere un dato condiviso dal Sole 24Ore: la ricchezza mediana netta delle famiglie composte da over 65 è dodici volte quella degli under 30. Dodici volte. Venti anni fa invece i ventenni erano leggermente più ricchi degli over 65. La colpa?
Dalla crisi economica del 2008 sempre più risorse sono state spostate dai giovani agli anziani attraverso il sistema pensionistico. I giovani italiani sono più poveri, meno istruiti e più precari dei loro colleghi europei. Secondo il rapporto Giovani 2019 dell’Istituto Toniolo i trentenni di oggi sono invecchiati peggiorando progressivamente la propria condizione di fragilità, un record in Europa. Nel 2007 i 20-24enni avevano un divario del 6% con la media europea, nel 2017 la distanza è arrivata al 10%. Cosa ha fatto la politica per loro in questi dieci anni? Basterebbe questo per scendere in piazza.
Ma i millennials, nati tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta non riescono a fare massa critica, né a scendere in piazza per fare pressione politica. Sfogano la frustrazione di una vita con meno possibilità rispetto a quella dei loro genitori con l’autoronia. Preferiscono fare meme sulla politica che organizzarsi in sindacati per protestare. Facebook è piena di pagine di satira sui politici italiani o gruppi goliardici che prendono in giro fenomeni della cultura pop. Quando si parla di Salvini, Renzi, e Di Maio la polemica rimane superficiale e non tocca mai i temi di fondo: Nutella, l’inglese incerto, un congiuntivo sbagliato. Una spiegazione della rassegnazione dei giovani che non credono più nel cambiare il loro status quo l’ha fornita a Linkiesta Luca Ricolfi, autore de “La società signorile di massa” (La nave di Teseo): «I giovani sono vittime perché non hanno un lavoro, e prima o poi pagheranno il debito pubblico che la politica continua ad aumentare, spesso per sostenere l’elettorato anziano, come quota 100. Sono però anche privilegiati perché questa è la prima generazione in cui una parte non trascurabile della gioventù può permettersi il lusso di consumare senza lavorare».
In realtà tanti giovani sono scesi in piazza a manifestare nei due grandi fenomeni di mobilitazione del 2019: i Fridays for future e le sardine. Ma in entrambi i casi la protesta si è indirizzata su due tematiche generiche, anche se importanti: la lotta contro il cambiamento climatico e contro il linguaggio violento della politica. Tutto giusto per carità, ma colpendo tutti non si colpisce nessuno. E la manifestazione sembra più un’auto assoluzione. L’unica rivendicazione specifica fatta nel manifesto delle sardine dopo l’evento di Roma riguarda l’abrogazione dei decreti sicurezza. Anche qui zero temi economici. Perché i giovani non riescono a scendere in piazza per protestare contro le misure che hanno danneggiato negli anni la loro prospettiva di vita e di lavoro? Nel 2008 gli adolescenti gridavano nei licei «noi la crisi non la paghiamo». Ma dopo dieci l’hanno pagata senza dire una parola. Anche per questo la politica continua a snobbarli.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/20/giovani-istat-sardine-governo/44824/