Tra sette giorni, il 3 marzo, Bernie Sanders potrebbe diventare di fatto il candidato del Partito democratico per sfidare il 3 novembre Donald Trump alle elezioni presidenziali americane. Per conquistare la maggioranza, necessaria per essere nominato formalmente alla Convention di luglio a Milwaukee, gli servono 1991 delegati. Oggi Sanders ne ha 39, contro i 25 di Pete Buttigieg e i 13 di Joe Biden, ma il 3 marzo, nel cosiddetto super tuesday, ce ne saranno in palio 1357 e, stando ai sondaggi, la gran parte saranno suoi. A quel punto, il vantaggio sarebbe quasi insormontabile, sostengono gli esperti.
Il mondo liberal è sconcertato, tra i democratici si avverte un diffuso «senso di sventura» ha scritto Politico, non solo perché Sanders non è un membro del Partito, ma soprattutto perché il senatore socialista del Vermont, che ancora l’altro ieri ha detto in tv che Fidel Castro ha fatto anche cose buone, come un nostalgico delle bonifiche dell’Agro Pontino, dagli strateghi di Washington è considerato il più vulnerabile del pacchetto di candidati contro Trump (auguri, in Florida, con quelle frasi su Castro).
Il suo radicalismo, sostengono, potrebbe facilitare la strada del presidente verso la rielezione e far perdere ai democratici la maggioranza alla Camera, conquistata due anni fa grazie a 36 seggi vinti da candidati moderati in collegi dove nel 2016 invece aveva prevalso Trump. Un danno irreparabile, perché non ci sarebbe più nemmeno la Camera a fare da contraltrare alla Casa Bianca e al Senato in mano a Trump. Gli avversari di Sanders non sembrano all’altezza del compito di fermarlo, perché non hanno né l’organizzazione sul campo né l’entusiasmo che l’anziano senatore riesce a mobilitare. Il vento è tutto a suo favore.
L’establishment di Washington ha puntato su Joe Biden, il quale finora ha condotto una campagna elettorale quasi amatoriale, e dopo i primi passi falsi dell’ex vicepresidente non è riuscito ancora a farsi ammaliare da Michael Bloomberg, nonostante i 400 milioni di dollari già spesi di tasca sua in spot anti Trump. Buttigieg è considerato un outsider, per cui le speranze di fermare Sanders a questo punto sono soltanto due, entrambe disperate.
La prima è che nei sette giorni che mancano da qui al super tuesday Bloomberg ricalibri la sua potenza di fuoco verso Sanders, in modo da far conoscere agli elettori democratici i punti deboli del senatore socialista in un’eventuale sfida contro Trump. La seconda è che Joe Biden vinca bene sabato in South Carolina, le ultime primarie prima del super tuesday, dove i potenti capi democratici locali sono da tempo mobilitati a favore dell’ex vicepresidente di Barack Obama.
Fin dall’inizio, sapendo che Iowa e New Hampshire non erano gli Stati ideali per la sua candidatura, la strategia di Biden è stata proprio questa: resistere fino alla South Carolina che grazie all’elettorato afroamericano è il suo campo di gioco preferito, vincere in modo convincente, assicurarsi lo status di candidato credibile e in grado di battere Sanders e affrontare con decisione e speranza il super tuesday, dove però entra in gara anche Bloomberg. Non sempre, però, queste pianificazioni a tavolino riescono, come dimostrano il flop di Rudy Giuliani nel 2012 e quello di Jeb Bush quattro anni fa.
La cosa più preoccupante per Biden, ma anche per Bloomberg e per tutti gli altri, compresi i big del Partito democratico, è che la candidatura eterodossa di Sanders, così apertamente e contraria all’establishment democratico, ricorda quella del 2016 di Donald Trump contro l’élite del partito repubblicano. Politicamente, invece, ricorda la cavalcata di Jeremy Corbyn alla guida del Labour britannico. In entrambi i casi sappiamo com’è andata a finire.
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