Si sente ripetere che la Francia può programmare un deficit per il del 2,8% del suo PIL, mentre l’Italia non potrebbe, perché il suo debito pubblico è inferiore al nostro. Queste affermazioni sono fuori da ogni schema logico di macroeconomia
Si sente ripetere che la Francia può programmare un deficit di bilancio per il 2,8% del suo pil, mentre l’ Italia non potrebbe, perché il suo debito pubblico è inferiore al nostro. Queste affermazioni sono fuori da ogni schema logico di macroeconomia e paiono frutto di ideologia e superficiale valutazione della realtà. La Francia ha un doppio (twin) deficit, di bilancia estera e pubblica, accompagnata da un aumento dei prezzi al consumo che ha recentemente superato il tetto stabilito dalla Bce. Unico nei principali Paesi dell’euroarea il suo disavanzo estero di parte corrente è dell’1,1% del pil, seguito solo da quello della Grecia con l’1,2%. Vive cioè al di sopra delle proprie risorse. Il suo deficit di bilancio pubblico è del 2,4%, a livello di quello preventivato per il 2019 dall’ Italia, attualmente al 2%. I dati sono quelli di The Economist, che sono ben standardizzati per i confronti internazionali. Questa condizione richiederebbe una stretta fiscale, ma il saggio di crescita reale della Francia è nell’ordine dell’ 1,7%, leggermente superiore al nostro, comunque insufficiente per affrontare la sua disoccupazione del 9,2%, che non discosta dal 10,4% dell’Italia; ha dovuto pertanto scegliere se procedere nella direzione della stretta fiscale o puntare alla ripresa produttiva.
Si può discutere se abbia scelto di attivare lo strumento adatto, ossia la riduzione delle tasse, ma si deve ritenere che, se ha deciso di aumentare il deficit pubblico, la sua scelta è comprensibile, pur essendo conscia che il risultato sarà un peggioramento dei due deficit. Essa porta quest’onere a carico del resto del mondo, assorbendo risparmio estero. L’Italia ha invece un avanzo di parte corrente sull’estero del 2,5%, vive cioè al di sotto delle sue risorse, e ha un 2% di deficit pubblico. La concezione più elementare di politica economica suggerisce di espandere la domanda interna; secondo i canoni più classici, anche «scavando fosse o costruendo piramidi». Intende invece affrontare la sua crisi di crescita, attualmente la più bassa dei principali Paesi dell’ eurozona, puntando a un mix tra investimenti e spese correnti per combattere, in particolare, la povertà e la disoccupazione giovanile. Essa non chiede di assorbire risparmio estero, ossia di portare il peso dell’aggiustamento sugli altri. Anche per l’Italia si può discutere se abbia scelto gli strumenti adatti, ma la discussione deve avvenire nel quadro della dinamica politica che deve affrontare. Una cosa è certa, che deve compensare due nuovi fattori di crisi: il primo è l’ inversione della politica monetaria indotta dal raggiungimento del fatidico tetto del 2% nei prezzi al consumo dell’ euroarea, con numerosi Paesi che l’hanno già superato, tra i quali la Francia e l’ Olanda; il secondo è la caduta generalizzata del saggio di crescita atteso, secondo i dati della Commissione Europea.
Con l’eccezione della Germania, che però resta ancorata al suo 1,9%, tutti gli altri Paesi si attendono una decrescita che va da un massimo di -0,8% per la Francia e -0,7% per l’Austria, a un minimo di 0,1% per il Belgio e 0,2% per Portogallo e Italia. Invero, per l’Italia altre fonti ritengono che il saggio di crescita del 2018 non sia di 1,3%, ma di 1,5%, e la caduta attesa non sia dell’1,1%, ma dello 0,9%. Anche trascurando le altalene statistiche, siamo di fronte a una generale caduta del livello di attività economica, senza nessuna reazione da parte delle autorità europee. Anzi, con la reazione consueta, secondo la quale non si deve toccare il pilota automatico dei parametri fiscali «convenuti», qualsiasi cosa accada. Queste note si limitano agli aspetti meramente macroeconomici, senza considerare le conseguenze sociali e politiche che una siffatta impostazione comporta, che da sole sarebbero sufficienti per cambiare registro. Né conviene ampliare, per la serenità delle relazioni intraeuropee, l’analisi fin qui condotta per considerare gli effetti causati da un avanzo di bilancia corrente estera dell’euroarea pari a 476,8 miliardi di dollari, di cui 320,6 miliardi della sola Germania, superiore all’analogo disavanzo degli Stati Uniti. I gruppi dirigenti di un’Europa che ha bisogno di crescere, per il bene dei suoi cittadini e della sua stessa esistenza, che accettano una siffatta condizione, devono spiegare perché non si mettono seriamente a discutere del suo futuro (come il governo italiano ha chiesto con il documento che sollecita una politeia invece di una governance) e indulgono in posizioni superate dalla storia. È giunto il momento di decidere chi vuole veramente l’Unione Europea, operando per mantenerla, o chi opera contro, facendo finta di volerla difendere.
Fonte Milano Finanza