Da qualche anno a questa parte, da quando cioè la sinistra e il centrosinistra hanno preso le vie della frammentazione e della perdita di centralità nel dibattito, i giorni dopo ogni elezione sono dedicate alle mitologiche analisi della sconfitta in cui tutti — giornalisti, opinionisti, esperti, ma anche politici usciti con le ossa rotta dall’ennesima umiliazione elettorale — si lanciano in elaborati piani per ripartire. Le parole chiave e le ricette sono sempre le stesse. “Ripartire dai territori” (che va a braccetto con l’ormai chimerico ‘ritorno alle periferie’, che ogni tanto qualcuno effettivamente fa come il Pd che riapre un circolo territoriale a Casal Bruciato, a Roma); “tornare alla base, ascoltando elettori-militanti-cittadini” (non dando nessuna continuità a questo assunto: con le possibilità dell’online e la capacità di mobilitazione che hanno ancora i partiti organizzati, non si fanno praticamente mai campagne di ascolto e confronto fuori dal periodo elettorale); “mettere in piedi un processo federativo per continuare dal buon risultato fatto” (salvo poi sciogliere l’ennesimo cartello elettorale il giorno dopo). A queste ricette se ne è aggiunta una, negli ultimi anni: “dobbiamo radicalizzarci”. Teoricamente ha senso: in tutto il mondo la sinistra sta riscoprendo il gusto perduto per le prese di posizione ideologiche, torna a parlare di lotta di classe e redistribuzione, affronta di petto la questione ambientalista e quella dell’automazione, parla di disuguaglianze di genere e critica senza mezze misure il capitalismo. Inoltre, in un periodo storico che vede il discorso della destra radicalizzarsi sempre di più, ha senso riempire lo spazio a sinistra con un po’ di sana dialettica radicale in virtù delle necessità di un ritorno alle categorie storiche (anche data la necessità di aggiornarle ai tempi che stiamo vivendo) di destra vs sinistra. Ha tutto senso, e succede ovunque tranne che in Italia. Come mai? Non è che forse stiamo semplicemente proiettando le nostre speranze — speranze, tra l’altro, forse più intellettuali e teoriche che non politiche e pratiche — su una classe dirigente che semplicemente non ha nelle sue corde queste cose?
La politica si è spostata ormai inesorabilmente dentro la dimensione della comunicazione. E ogni gesto, ogni mossa è studiata nel dettaglio. Non esiste più un periodo in cui non si sta facendo una campagna elettorale, e ogni azione dei leader — che ormai interpretano sul proprio corpo tutta la dimensione del partito, lasciando agli altri dirigenti un ruolo secondario quando non sempre nell’ombra più totale — risponde alle logiche della propaganda. Si fa tutto in nome non di un’idea, non di un orizzonte, non per inseguire “la cosa giusta”, ma per consenso. È il consenso che muove ogni azione politica. E se questa affermazione può sembrare ovvia, ribadiamo il fatto che una politica che si limita alla ricerca del consenso — e alla sua amministrazione — non riuscirà mai a occuparsi della costruzione di una agenda indipendente dagli umori dei social network, da quello che dicono i sondaggi e quello che tutti suggeriscono (anche in modo critico) su cosa sarebbe giusto fare o non fare. Una politica che accontenta tutti per non scontentare nessuno. O per lo meno, per non scontentare nessuno che sta dalla tua parte.
In effetti sarebbe già qualcosa avere una parte. Dal giorno dopo le elezioni si rincorrono voci sullo strappo ‘al centro’ di Carlo Calenda, sui soliti dissidi interni del Partito Democratico, e sul futuro del cartello de La Sinistra uscito martoriato dalle elezioni europee e destinato a probabile scomparsa per via delle sue divisioni interne e delle problematiche che tutti quei gruppi dirigenti si trascinano almeno dai tempi della svolta della Bolognina (mentre stanno bruciando una intera generazione di giovani dirigenti che a furia di aspettare il proprio turno si stanno emarginando nell’emarginazione). Mentre da un lato si costruisce un’agenda granitica attorno al discorso sovranista, la sinistra e il centrosinistra perdono tempo ad ascoltare oracoli, consulenti di comunicazioni e si fanno tirare ovunque dalla giacchetta ricercando una identità buona per la prossima stagione. “Questi sono i miei valori, se non vi vanno bene ne ho degli altri”, diceva Groucho Marx. Lo fanno tutti — lo stesso Salvini è passato dal fare tweet di disprezzo al tricolore a scrivere di amare la patria sopra ogni cosa — ma quando lo fa la sinistra, non è credibile. Perché?
Qui non è questione di avere una classe dirigente all’altezza dei propri sogni, ma una classe dirigente in grado di darsi un obiettivo e perseguirlo. Il Partito Democratico non sarà mai qualcosa di diverso da un partito moderato che intercetta voti della media e dell’alta borghesia, dell’elettorato da voto utile e convinto che la disoccupazione sia un problema tutto sommato relativo nel paese; e a sinistra non avremo mai un cartello davvero radicale capace di imporre i propri temi nel dibattito dovendoci invece accontentare di una ricetta socialdemocratica che solo lo spostamento al centro del partito grosso rende radicale. Non lo sono perché la classe dirigente non sente su di sé questi abiti. Sono tutti cresciuti alla scuola della Frattocchie (o nella sua coda lunga), bloccati dai fantasmi della politica che fu, dilaniati dal conflitto tra la ricerca della responsabilità di governo (la ragione di stato, il compromesso storico, la vocazione maggioritaria, la cultura dell’amministrazione e della gestione degli equilibri) e l’incapacità intellettuale di andare oltre questa fase storica in cui ci si è sostanzialmente adeguati all’inevitabile attuale senza portare avanti un discorso critico alternativo che sia coerente e vendibile in modo sistemico. Come scrive George Monbiot in Riprendere il controllo (Treccani Libri), non si può vincere e imporre la propria visione se non si ha una storia alternativa da offrire. E questa ricerca di consenso buona per una sola stagione ha portato la sinistra a perdere di vista un aspetto fondamentale della politica: l’empatia e la sincerità.
Come si può pensare di essere credibili se un partito che da sempre offre il fianco alla globalizzazione senza nessun tipo di discorso critico (e anzi, aprendosi in Europa sia al PSE, sia all’ALDE) si scopre improvvisamente nostalgico della regolamentazione e della gestione dei flussi economici? Come possiamo chiedere il voto a sinistra se sull’immigrazione si è scelto di seguire una linea controversa e poco lungimirante firmando addirittura due dispositivi da molti (leggete ad esempio l’analisi che fa Aboubakhar Soumahoro nel suo Umanità in rivolta) considerati ‘di destra’ come la Turco-Napolitano e la Minniti-Orlando? Come ci si riscopre ambientalisti se per anni si è governato regione con tassi di cementificazione molto alti, si è accettato il paradigma della grandi opere e si è votato senza indugio decreti come lo Sblocca Italia? E come si può cercare di insegnare a qualcuno a ‘fare la sinistra’ quando per anni si è rappresentato la mitologica destra del partito tra deregolamentazione del mondo del lavoro, rottura del patto sindacale con graduale impoverimento dei corpi intermedi e partecipato al bombardamento del Kosovo? Qui non si tratta di fare la morale a nessuno, e non si vuole nemmeno fare la lunga lista degli errori pratici, ancora prima che teorici, che la sinistra ha fatto in questi anni. Si tratta però di dire che la mancanza di credibilità che ha portato l’idea della sinistra italiana a perdere sempre più consenso nel paese arriva da lontano. E non è solo colpa di un Matteo Renzi (che pure ne ha) o di un Beppe Grillo (il cui Movimento ha agito dentro queste contraddizioni per svuotarne l’elettorato nella sua prima fase). È colpa della mancanza di sincerità di una classe dirigente più interessata a gestire il potere e inseguire il consenso per compiacere sondaggi e indici d’ascolto piuttosto che inseguire la propria idea. Foss’anche quella di perseguire un’agenda liberal moderata. Foss’anche quella che abbiamo visto in tutti questi anni. Ma senza esitazioni, senza “ma anche”, senza “posizione prevalente”, senza “un po’ e un po’”.
Gli elettori si riconoscono dentro una narrazione, e si riconoscono se vedono le proprie ragioni dentro un sistema di valori impersonificati da persone che ne rispondono con credibilità e sincerità. Nel mondo diventato favola, dove trionfa lo storytelling e lo spettacolo permanente, la sincerità — anche la “sensazione di” — è una merce di estremo interesse e di altissima efficacia. Non importa che Matteo Salvini cambi idea (del resto, come abbiamo scritto su queste pagine, non crede in nulla), importa che sia credibile mentre lo fa. I politici di sinistra e di centrosinistra dovrebbero smetterla di inseguire i sondaggi e cercare di compiacere le persone usando parole chiave imposte da altri, sottostando a narrazioni e agende non loro, e dovrebbero anche smetterla di farsi dire dagli altri di dover essere “più radicali”. Del resto, se non lo sono stati fino ad ora, vuol dire che semplicemente non lo sono. Se non vogliono rinnovarsi e cambiare la propria classe dirigente per andare in un futuro che è ancora tutto da scrivere, allora abbiano il coraggio di essere sinceri prima di tutto con loro stessi e tornare a fare quello che sanno fare meglio. Se questo è essere dei moderati liberal con tendenze socialiste che cercano il potere e vogliono solo le responsabilità di governo (prima o poi), lo facciano. Gli elettori giudicheranno in base alla storia che verrà loro raccontata. Una storia che per una volta potrebbe essere addirittura coerente.
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