Roy Batty, il replicante di Blade Runner interpretato da Rutger Hauer, aveva visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare. Se ieri fosse passato dal parlamento italiano, tuttavia, avrebbe avuto di che stupirsi. Per una volta, tuttavia, non ci riferiamo a Salvini, che compie la sua ennesima irrisione alle istituzioni evitando di presentarsi al Senato per riferire sul Russiagate. Non ci riferiamo nemmeno a Conte, che si immola al posto suo. E nemmeno ai Cinque Stelle, che abbandonano l’aula costrigendo il loro presidente del consiglio a parlare ai banchi vuoti della sua stessa maggioranza.
No, stavolta ci riferiamo al Partito Democratico, la principale forza di opposizione. Che nel giorno della disfatta del governo, dilaniato dalle intercettazioni moscovite e dal Sì alla Tav, riesce nell’impresa di far notizia per l’ennesima spaccatura tra Zingaretti e Renzi, che rinuncia a parlare a nome del Pd nella discussione al Senato, a causa, testuale, “delle polemiche interne dentro il partito da parte dei senatori vicini alla segreteria”.
Basterebbe questo. Nel giorno dello showdown di Salvini, Di Maio e Conte, con un governo fatto di tre minoranze e nessuna maggioranza, con una crisi mai così concreta di fronte, con una vicenda oscura – tanto da obbligare Conte a ribadire la nostra fedeltà all’alleanza atlantica, nemmeno fossimo nel 1959 – con una legge di bilancio da scrivere, con un’economia italiana da rilanciare, si dovrebbe parlare d’altro. Di come gestire in Parlamento la crisi. Di come farsi trovare pronti. Di cosa fare nel caso la crisi arrivi davvero. Della lista della cose da chiedere e da fare, nel caso ci sia la possibilità di una nuova maggioranza parlamentare. Tutto, tranne piccole guerre di nomenklatura e di piccole vendette personali.
E invece, puntualmente, eccoci qua. A prendere atto della patologica autoreferenzialità del Partito Democratico, che vive della sua dialettica interna ed evidentemente gode a metterla in scena pubblicamente. A fare i conti con atteggiamenti, scelte, parole che non appartengono né alla tradizione della sinistra italiana, cui il Pd dice di ispirarsi, né tantomeno a una forza che si dice alternativa a Lega e Cinque Stelle. A dover fare i conti con l’evidenza che di fronte al disastro del peggior governo che questo Paese abbia mai avuto, per distacco, l’opposizione non è riuscita a guadagnare un voto, né a farsi percepire come alternativa credibile, o desiderabile, nemmeno dai suoi elettori. A dover constatare, piuttosto amaramente, che l’unica cosa che unisce maggioranza e minoranza Pd è la paura che questo governo crolli, sia mai che si torni al voto, o che serva una nuova maggioranza in Parlamento.
Ce la ricordavamo diversa. Ci ricordavamo l’abilità con cui il Pds di D’Alema riuscì a spaccare l’alleanza tra Forza Italia e Lega Nord, riuscendo a far cadere Berlusconi e a batterlo alle elezioni quando smise di gridare al pericolo per la democrazia e si mise a combatterlo sul piano della manovra politica. Ci ricordavamo scelte federative importanti e coraggiose, giuste o sbagliate che fossero, da quella che portò alla nascita dell’Ulivo, a quella che sancì la nascita del Partito Democratico, tentativo ambizioso di dare all’Italia un grande partito di centrosinistra. Ci ricordiamo innovazioni politiche importanti, come quella delle elezioni primarie per la scelta di segretari, candidati premier, candidati sindaci, che ha plasmato il dibattito politico italiano e costretto tutte le altre forze politiche a inseguire. Ci ricordavamo dibattiti politici combattuti a colpi di programmi, e non di ripicche personali e dirette Facebook.
In estrema sintesi: ci ricordavamo una forza politica seria, forse pure troppo, di cui oggi ci sarebbe un bisogno enorme. Ci ritroviamo un’accolita di rancorosi, dilaniata da guerre civili interne, culturalmente soggiogata dalle strategie comunicative di Salvini e Di Maio, incapace di dettare l’agenda, del tutto assente dal dibattito sui contenuti, il cui unico argomento di discussione è l’alleanza anti-Salvini coi Cinque Stelle, o il destino politico di Matteo Renzi.
Una forza politica seria, servirebbe. Capace di tornare orgogliosamente al governo, se i gialloverdi cadranno, e con le idee chiarissime su cosa fare e non fare per radrizzare la barca. Capace di una proposta politica che allarghi il fronte delle alleanze per essere competitiva contro l’asse Salvini-Meloni, nel caso si tornasse al voto. Capace di dominare la scena con tattica e strategia, con cinismo politico e lungimiranza, facendosi forte della propria storia e della propria esperienza con una banda di dilettanti allo sbaraglio. Questo servirebbe. Altrimenti, se non si riesce a essere necessari e decisivi in una situazione di questo tipo, è davvero tempo di morire.
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