Ieri mattina Repubblica e Corriere della Sera hanno riportato un virgolettato del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dice di essere «colpito dagli attacchi di pezzi dello Stato – burocrazia, apparati ministeriali, parlamentari e forze politiche – che lavorano contro il mio esecutivo». Frase che non è passata inosservata, tanto che Palazzo Chigi ha smentito ufficialmente a ora di pranzo: Giuseppe Conte non ha mai pronunciato quella frase, almeno non in quel modo.
Accuse del genere non sono nuove, i leader parlano spesso dello “Stato profondo”, l’implicita tendenza degli apparati statali a essere ostili a ogni cambiamento, tanto da boicottare sistematicamente le ambiziose riforme della politica per preservare il proprio potere e gli interessi nazionali di cui si considerano custodi.
D’altronde Matteo Renzi aveva impostato parte della comunicazione politica contro i grand commis che avversavano le sue riforme strutturali, mentre Silvio Berlusconi si lamentava spesso dei lacci e lacciuoli che impedivano al suo governo di portare a termine la rivoluzione liberale. Le lamentele sono ricorrenti anche da parte di ministri e sottosegretari «prigionieri» di un dirigente ministeriale non meglio identificato che oppone resistenza, non firma quel determinato documento, cambia il senso di un provvedimento attraverso una circolare applicativa.
Secondo Lorenzo Castellani, politologo della Luiss di Roma e studioso delle dinamiche tra politica e pubblica amministrazione, l’uscita segnala qualcosa in più, e fa parte della strategia comunicativa di Giuseppe Conte: «In sé non è una novità, ma va inserita nel contesto attuale: il presidente del Consiglio sta cercando in tutti i modi di diluire le sue responsabilità politiche, da qui la nomina di diverse task force incaricate di proporre strategie per affrontare la crisi economica, l’aumento esponenziale di consiglieri, camere di compensazione, tavoli di crisi. Puntare il dito contro l’amministrazione è un passo ulteriore: se le misure promesse non vanno in porto o subiscono ritardi l’elettorato saprà con chi prendersela».
Sofia Ventura, politologa dell’università di Bologna, ritiene che questo atteggiamento sia comune a molti leader politici contemporanei: «È l’alibi facile di chi punta molto più sulle parole che sui fatti, politici che hanno dunque l’ossessione di giustificarsi se qualcosa risulta più complesso del previsto, di mostrarsi comunque capaci ma costretti a combattere per portare a casa il minimo risultato. Attaccare la burocrazia è tra l’altro molto facile, è esperienza comune, in Italia, che la burocrazia sia più un impedimento che uno strumento utile».
L’artificio retorico di utilizzare l’amministrazione come capro espiatorio per le lentezze e le indecisioni della politica non è una peculiarità italiana. Emmanuel Macron, che pure della burocrazia francese è un puro prodotto (ispettore generale al ministero delle Finanze prima di diventare vice segretario generale dell’Eliseo durante la presidenza Hollande), ad agosto 2019 evocava le resistenze dell’alta amministrazione diplomatica verso la sua politica di riavvicinamento alla Russia di Vladimir Putin.
Nel caso di Giuseppe Conte la polemica si intreccia con la fase politica molto particolare e con il rapporto mai decollato tra il presidente del Consiglio e Vittorio Colao, capo della task force per la Fase 2 e la ricostruzione economica.
Il governo non prenderà in considerazione le conclusioni del gruppo di lavoro di Colao, considerato forse troppo ingombrante per il premier. Tanto che Mariana Mazzucato, economista dello University College di Londra e consulente di Palazzo Chigi, ha deciso di non firmare il lavoro della task force, di cui pure ha fatto parte. Un chiaro segnale di presa di distanza da parte dell’entourage del presidente del Consiglio.
Le frasi contro l’alta amministrazione vanno inserite in questo contesto, ed sono quindi con ogni probabilità strumentali, anche perché Giuseppe Conte ha presieduto due governi consecutivi, esercitando (a giusto titolo) il potere di nomina di posti chiave nelle burocrazie statali e nelle aziende pubbliche.
«In Italia esiste senz’altro un potere di veto, ma si annida nelle leggi, nelle norme, non nel personale dell’amministrazione e della burocrazia di Stato» dice a Linkiesta un alto funzionario governativo. «È il profluvio legislativo a dare potere all’amministrazione, e la politica è abituata a legarsi con le sue stesse mani: ogni nuovo governo produce una quantità inutile di norme e indicazioni contraddittorie che poi a loro volta “legano” l’amministrazione. Non si capisce poi con chi ce l’abbia il presidente Conte: ha forse proposto una riforma della burocrazia tale per cui possono esserci resistenze?».
Persino negli Stati Uniti la lotta tra potere presidenziale e burocrazia federale è molto meno rilevante di quanto Donald Trump cerchi di far credere dal giorno della sua elezione. Come scrive il Financial Times nella sua recensione del libro di David Rodhe “In Deep: The Fbi, the Cia, and the Truth about America’s Deep State”: «La burocrazia federale protegge il suo territorio, trama per ottenere fondi e lotta per ritagliarsi rilevanza politica, argomenta Rodhe. Ma non pianifica colpi di Stato – almeno non interni – e non lavora sistematicamente per sabotare le politiche del presidente».
Con questa interpretazione concorda Sofia Ventura: «I burocrati non sono intrinsecamente malvagi, possono essere più o meno preparati, ma non si svegliano ogni mattina immaginando come ostacolare il presidente del Consiglio o il ministro di turno. Spesso questi attacchi nascondono una verità molto più semplice: i politici non sono capaci di applicare concretamente le norme che scelgono».
Perché Conte accusa l’alta burocrazia di voler sabotare le sue riforme