Si dice sempre che la politica italiana sia tremendamente complicata, che politici e ambasciatori stranieri non ci si raccapezzino, che gli stessi corrispondenti della stampa internazionale debbano spesso darsi per vinti. Può darsi che sia effettivamente così e può darsi invece che in questo luogo comune, come spesso accade, si mescolino vecchi pregiudizi, mezze verità e pigrizia intellettuale. Ma c’è al mondo una sola persona in grado di dare una spiegazione razionale del perché – dopo avere trangugiato ben altro – l’unica cosa su cui il Partito democratico si è deciso a puntare i piedi con i Cinque Stelle, al punto da rischiare la crisi di governo, sia proprio il Meccanismo europeo di stabilità? Persino Carlo Calenda, non certo un antieuropeista, e tanto meno un demagogo o un grillino, è arrivato a dire che ci sarebbero mille problemi ben più importanti di cui discutere, a cominciare dalla sanità. Perché, dunque? Perché – di tutti gli infiniti motivi di scontro che potevano interessare l’intera cittadinanza – scegliere proprio il più astruso, il più gelido e il più facilmente utilizzabile, da parte dell’opposizione, come arma di propaganda contro il governo e contro l’Europa?
È una scelta che ha due sole spiegazioni razionali, entrambe completamente irrazionali (il bisticcio non è colpa mia: si può spiegare razionalmente il comportamento di un pazzo, che resterà comunque irrazionale).
La prima possibile spiegazione è che il Pd abbia deciso di far cadere il governo e andare a votare al più presto. Molti indizi nelle ultime settimane hanno accreditato questa ipotesi, di cui si è scritto più volte anche qui, a cominciare dalla scelta di appoggiare una riforma della legge elettorale in senso maggioritario, vaneggiando di un bipolarismo che nessuno vede. Non c’è bisogno di prendere la calcolatrice per capire quali equilibri parlamentari ne verrebbero fuori, con il centrodestra che prima ancora di cominciare la campagna elettorale è già quotato oltre il 50 per cento, e tanto più considerando che il Movimento 5 stelle non sembra minimamente intenzionato a coalizzarsi con il Pd (senza considerare poi Calenda, Italia viva e tutta la congerie di forze reciprocamente non coalizzabili). Il risultato potrebbe produrre una sproporzione nella rappresentanza di dimensioni inedite, quale in Italia non si vide nemmeno dopo le elezioni del 1924, con la legge Acerbo. Con tanti saluti a tutti quei preziosi punti fermi, garantiti finora dall’equilibrio dei poteri, che ci siamo abituati a dare per scontati: dallo Stato di diritto all’appartenenza all’euro e all’Unione europea, alla collocazione internazionale dell’Italia.
La seconda possibile spiegazione del comportamento del Pd è che si tratti di una sorta di automatismo, una seconda natura ormai acquisita con l’abitudine, un riflesso condizionato: lo stesso che sin dagli anni novanta scatta all’approssimarsi di ogni crisi finanziaria, e che ha toccato il vertice di autolesionismo nella scelta non tanto (o non solo) di varare il governo Monti nel 2011, quanto poi persino di confermargli l’investitura fino alla fine della legislatura (mentre il presidente del Consiglio, con grande stupore del Pd, ne approfittava per costruirsi il suo bel partitino). In altre parole, una vera e propria allergia alla politica, cui è subentrata progressivamente una concezione, più che tecnocratica, tecno-illogica. Si può discutere, infatti, di quanto fosse politicamente sensato, nel 2011, sobbarcarsi le durissime riforme del governo Monti; ma presentarsi oggi come gli arcigni guardiani dell’Europa, nel momento stesso in cui si confermano tutti i più sballati provvedimenti economici del governo precedente – provvedimenti demagogici, e perdipiù altrui, cioè provvedimenti i cui benefici in termini di consenso andranno comunque ad altri – è qualcosa che sfida ogni ragionevolezza.
Nessuna spiegazione sembra comunque sufficiente a rendere ragione di una simile allergia alla politica. Tanto più dopo aver sentito Nicola Zingaretti gridare dal palco dell’assemblea del Pd, il 17 novembre, che era «ovvio» che i democratici si sarebbero battuti per lo Ius culturae, per cancellare i decreti sicurezza e per un sacco di altre cose importanti. «Ma certo che lo faremo – aveva urlato rivolto alla minoranza – ma lo faremo per raggiungere l’obiettivo, non per mettere bandierine e prendere un’intervista sui giornali che lascia poi inalterato il cambiamento». Qualunque cosa intendesse Zingaretti con quella curiosa espressione del cambiamento inalterato (probabilmente una raffinata parafrasi del Gattopardo), il problema è che il giorno dopo l’intervista sui giornali l’ha fatta Luigi Di Maio, e del cambiamento non si è più saputo niente. Tanto meno dello Ius culturae.
Nel frattempo, le navi cariche di naufraghi continuano a essere tenute a mollo per giorni (ora è il turno della Alan Kurdi), proprio come faceva Matteo Salvini, senza che nessuno nel governo senta il dovere di affrettarsi, tanto meno la ministra Lamorgese. Lodata in compenso da buona parte del Pd perché «ha fatto più lei in un mese che Salvini in un anno». Dichiarazioni da cui par di capire che il problema di Salvini, secondo i suoi presunti avversari, è che sui migranti sarebbe stato troppo moderato.
Ma guai a toccare il Mes.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/04/pd-fondo-salva-stati-mes-zingaretti/44620/