“Anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente processi economici”.
Queste righe sono la descrizione della postdemocrazia, lo stato in cui, secondo Colin Crouch, si trovavano alcuni sistemi nominalmente democratici al passaggio del millennio. Ѐ evidente che i grandi assenti, già allora, erano i partiti: i soggetti collettivi, incaricati di assicurare le relazioni tra le istituzioni e la cittadinanza.
La marginalizzazione dei partiti, d’altronde, è un processo correlato alla crisi del funzionamento delle democrazie, ed è purtroppo anche un processo difficile da invertire, perché legato a enormi mutamenti storici. La “crisi della modernità” ha infatti significato soprattutto la fine delle grandi narrazioni che costituivano uno dei più forti stimoli di adesione a una prospettiva politica: quello emotivo.
Ma se è vero che i processi che hanno portato alla stagione di crisi della forma partito sono di enorme portata storica – con la comparsa del “privatismo politico” – è altrettanto vero che, laddove hanno saputo reinventare delle narrazioni coerenti, i partiti politici hanno ritrovato ottima salute. Ѐ questo il caso, ad esempio, delle elezioni politiche italiane del 2018.
Uno degli aspetti che contraddistingue i due partiti vincitori, la Lega e il Movimento 5 Stelle, è l’aver saputo costruire delle piccole narrazioni in grado di aggregare una tensione emotiva attorno alla propria immagine. Queste due forze hanno saputo cogliere la richiesta del superamento di un ormai insostenibile status quo. Nonostante lo abbiano fatto in realtà attraverso piccole narrazioni che, in realtà, nascondono i veri bersagli di quelle che dovrebbero essere le rivendicazioni di coloro che si trovano in condizione di subalternità. Con grande furbizia, le due forze politiche hanno saputo utilizzare il meccanismo più semplice per autodefinirsi: opporsi a qualcos’altro.
Ma, se hanno potuto sfruttarlo con così tanto successo, è perché i partiti provenienti dalle principali tradizioni ideologiche del Novecento hanno completamente abdicato alla costruzione di un’identificazione emotiva con il proprio elettorato, appellandosi invece a una generica “responsabilità” traducibile, nel concreto, nell’osservanza dei dogmi dell’economia monetarista.
I partiti tradizionali hanno dimenticato una delle necessità fondamentali di ogni essere umano: quella di dare senso a ciò che gli succede. Ogni tentativo di spiegare perché le cose vadano in un determinato modo, perché avvenga qualsivoglia accadimento, quali siano i meccanismi che hanno portato gli eventi a prendere una specifica direzione, è una narrazione che gli esseri umani coproducono in modo collaborativo o conflittuale, che sia più o meno realistica.
Nessun partito, quindi, può avere successo senza incarnare una tensione al futuro. E nessun partito che voglia essere popolare può avere successo senza che questa tensione al futuro indichi un cammino di emancipazione per chi è in condizione di subalternità. Una questione da annotare per l’opposizione italiana.
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