Tutto si può dire di Nicola Zingaretti tranne che non abbia chiara la situazione disperata in cui si trova il Partito Democratico di cui è appena diventato segretario. Un Partito il cui orizzonte, da qui alla fine dell’anno, deve porsi un solo realistico obiettivo: sopravvivere. Già, perché nonostante il 4 dicembre, le scissioni, il 4 marzo, le casse vuote, e le continue batoste rimediate alle amministrative, per il Pd il peggio deve ancora venire. Tra oggi e il 90esimo minuto ci sono le europee, le amministrative in Piemonte ed Emilia-Romagna, a Bologna e a Firenze. Stare sotto il 20% il 26 di maggio e perdere tutte o quasi le rimanenti storiche roccaforti non lascerebbe pietra su pietra del sodalizio nato dalla fusione tra Margherita e Ds, o se preferite tra la sinistra della Democrazia Cristiana e gli eredi del Partito Comunista Italiano, le due architravi della Prima Repubblica, sopravvissute alla seconda, che rischiano di non vedere il nascere della Terza.
Non è tempo di voli pindarici né di guerre civili, di vasti programmi o di rese dei conti epocali tra riformisti e massimalisti, ali destre e sinistre, laici e cattolici. In fondo, non è nemmeno il momento di definire l’identità di questa forza anomala della politica italiana, egemone o quasi fino a tre anni fa. Ed è un messaggio che si legge in controluce dentro quel richiamo esterofilo, da Tsipras a Macron che Zingaretti ha articolato nel suo discorso di insediamento e che ha trovato trasposizione concreta nella contemporanea apertura a Calenda e ai transfughi di Articolo Uno: il primo, premiato con il suo “Siamo Europei”, nel simbolo delle europee; i secondi, con un po’ di posti in lista per provare a sanare la traumatica frattura post referendaria.
“All’indomani delle elezioni europee, tutto il continente guarderà quanto avremo preso”, dice Zingaretti, che sa benissimo – a dispetto delle frasi di circostanza – che le elezioni regionali sono state il proseguimento dello sciame tellurico del 4 marzo, che l’emorragia è continuata, che ormai il radicamento locale che un tempo era la forza dei dem è ridotto al lumicino, che non c’è territorio che si può dire immune dalla slavina (poco) gialla e (molto) verde. Che oggi bisogna chiamare tutti, Renzi compreso, D’Alema compreso, al salvataggio di quella che, bene o male, è stata la casa di tutti.
Sa anche, Zingaretti, che se dovesse andare bene – Pd sopra il 20% alle europee e vittorie tosco-emiliane – il percorso, da lì in poi, sarebbe più agevole e il cerino passerebbe nelle mani delle forze di governo, alle prese con una manovra impossibile e con le crisi di convivenza tra Salvini e Di Maio. Forte di un paio di vittorie-brodino e di una rinnovata unità, il Pd potrebbe ricominciare a fare opposizione, a tessere tele al suo esterno, a inventarsi qualche buona idea, magari addirittura a candidarsi come possibile alternativa senza che a nessuno scappi da ridere.
Ora, però, non è nemmeno tempo di pensarci. Ed è sintomatico – e in un certo senso pure rassicurante – che persino Renzi e i suoi se ne siano accorti. Che non ci sia stata (sinora) nessuna levata di scudi contro il ritorno all’ovile di Speranza e soci, che nessuno stia ancora bombardando il quartier generale. Proviamo a essere perfidi: probabilmente, stanno tutti aspettando di vedere cosa uscirà dalle liste per le europee, vero primo banco di prova della nuova pax zingarettiana. Chi lo conosce, sa che il mite Nicola non ci sta dormendo la notte, che è come camminare sul filo sopra una Santabarbara, che non potrà permettersi strappi o forzature, ma dovrà pesare ogni elemento sul bilancino. Del resto, primo sopravvivere è un motto che vale anche per lui. Soprattutto, per lui.
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