Che fino a ieri la Libia non fosse una polveriera, ma un porto sicuro e in pace, probabilmente lo pensava solamente Salvini. Che da domani nemmeno lui potrà sostenere questa tesi è altrettanto lapalissiano. Non è questione di lana caprina, questa, ma il nuovo e drammatico cambio di scenario, che rischia di far saltare tutta la strategia del ministro dell’interno in materia d’immigrazione, per di più in piena campagna elettorale per le elezioni europee e all’inizio di questi mesi caldi e di mare calmo in cui, anche in circostanze meno emergenziali, partenze e sbarchi dalla Libia aumentano fisiologicamente.
L’innesco di questo cambio di scenario è senza dubbio l’offensiva lanciata dal generale Haftar contro il governo di pacificazione nazionale di Al Sarraj. Un’offensiva che con ogni probabilità porterà la guerra nei due principali porti di partenza verso l’Italia, Tripoli e Misurata. Questo vuol dire tre cose. La prima: che le partenze aumenteranno esponenzialmente – altro che i seimila ipotizzati dagli 007 del Viminale – perché nessuno vuole rimanere in un posto dove tra poco si scatenerà l’inferno. La seconda: che anche gli abitanti del luogo (Tripoli ha più di un milione di abitanti, Misurata circa 400 mila, tutta la Tripolitania quasi 4 milioni) diventano dei potenziali rifugiati tutelati dal diritto internazionale. La terza: che nessun migrante soccorso in mare potrà essere riportato verso il porto in cui è partito. La quarta: che non c’è nessuna possibilità di ignorare il problema, lasciando che una marea di persona parta e muoia, e che nulla può impedire alle organizzazioni umanitarie non governative di presidiare il tratto di mare che separa la Libia dall’Italia.
Per Matteo Salvini e la sua dottrina è lo scenario peggiore possibile. Perché improvvisamente le carte (vincenti) che aveva in mano non valgono più nulla. Non può più negare che in Libia ci sia una guerra. Non può più dimostrare che i porti di Tripoli e Misurata siano sicuri. Non può più affermare che quelli in partenza dall’inferno libico non siano rifugiati bisognosi di protezione internazionale. Come non bastasse, rischia pure di non aver più un governo e una guardia costiera amica su cui fare affidamento per riportare i gommoni indietro senza che nessuno in Italia se ne accorga: se la battaglia dovesse davvero divampare è più che probabile che tutte le unità militari di Al Sarraj saranno chiamate a combattere per difendersi contro Haftar. O perlomeno che il prezzo del presidio dei nostri confini aumenti esponenzialmente e non basti qualche motovedetta usata, a comprarlo.
La campagna elettorale delle elezioni europee rischia di far impazzire la maionese: ogni decisione di Salvini, infatti, dovrà essere pesata – come avviene sempre: ora, semplicemente, di più – sulla bilancia del consenso. E già prevediamo gli strali del Capitano contro la Francia, rea e recidiva di aver riportato la guerra a Tripoli, e contro il resto del continente, che con ogni probabilità non muoverà un dito per aiutare l’Italia nei guai.
In tutto questo, c’è pure il fattore Di Maio da non dimenticare. Il capo politico dei Cinque Stelle stava impostando tutta la campagna elettorale contro la deriva di ultradestra dell’Europa e rischia di ritrovarsi tra l’incudine degli sbarchi incontrollati e il martello dei porti chiusi e della fermezza salviniana. Che farà, il caro Luigi? Il fedele alleato come nei casi dell’Aquarius e della Diciotti, col rischio di veder fagocitato il proprio consenso dallo strapotere leghista? Oppure sarà il capofila di una fronda umanitaria che potrebbe coinvolgere pure i sindaci di Lampedusa, Siracusa, Napoli, Cagliari, Palermo? E in quest’ultimo caso, quante settimane di vita potrà avere il governo? La risposta è alle porte della Tripolitania. Sincronizzate gli orologi.
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