Il primo capo dello Stato è non solo “provvisorio” ma anche parecchio tentennante. All’alba della Repubblica, nel 1946, quando la Costituzione ancora non c’è ma il popolo italiano ha già scelto la Repubblica, bisogna mettere in cima alle istituzioni una figura che le guidi e rappresenti l’Italia fino al termine dei lavori della costituente. Al governo ci sono Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, ancora alleati. Dopo il referendum del 2 giugno che ha fatto vincere la Repubblica, le funzioni di capo provvisorio dello Stato sono andate a De Gasperi, nella sua qualità di presidente del consiglio. Ma bisogna presto eleggere un presidente “vero” che affianchi De Gasperi e diriga l’attività dello Stato postfascista. Il clima di collaborazione tra democristiani, comunisti e socialisti dà al governo una maggioranza solida, ma al momento di scegliere il capo dello Stato le strade si dividono. Sulle prime la Dc punta sul vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del consiglio in epoca prefascista, mentre Togliatti pensa al filosofo Benedetto Croce, che però risponde picche con una lettera in cui dice di sentirsi “inadeguato”.
Andare allo scontro in aula non è possibile: l’Italia non può permettersi una divisione già agli albori della Repubblica. Togliatti lo sa bene e acconsente a incontrare De Gasperi insieme ai socialisti Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. I quattro entrano in una stanza di Montecitorio e ne escono un’ora dopo con l’accordo in tasca su De Nicola: è un galantuomo, è liberale (quindi non fa ombra a nessuno dei partiti maggiori) è meridionale (così si riequilibra la geografia dei vertici dello Stato, dove sono quasi tutti del Nord) ed è monarchico (così i dieci milioni di italiani che hanno votato per il re al referendum del 2 giugno si sentiranno rappresentati). Non c’è che da comunicare la notizia al diretto interessato, che è a casa sua a Torre del Greco. Ma c’è un piccolo problema: De Nicola è noto per la sua indecisione nell’accettare gli incarichi. Passa da un sì a un no nello spazio di poche ore. Il prefetto che va a comunicargli la notizia riceve come risposta un “no grazie”. Poi comincia il tira e molla. De Nicola ci pensa e ci ripensa, pone come condizione che la maggioranza che lo eleggerà sia praticamente unanime. Lo stallo si protrae per qualche giorno e induce il Giornale d’Italia a lanciare un accorato appello: “Onorevole De Nicola decida di decidere se accetta di accettare!”.
Il 28 giugno del 1946 arriva la sospirata elezione: l’assemblea costituente lo elegge capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501. Oltre a De Nicola hanno raccolto voti la candidata dell’Uomo qualunque, la baronessa Ottavia Penna di Buscemi, e il candidato dei repubblicani Cipriano Facchinetti. E’ stato deciso che il presidente dovrà risiedere al Quirinale: ma lui, dopo la cerimonia iniziale (alla quale arriva con un’ora e mezzo di ritardo viaggiando da solo su una millecento nera e portandosi dietro una valigia di cuoio) non ci pensa minimamente: da buon monarchico rifiuta di sistemarsi “nel palazzo dei papi e dei re” e prende alloggio a Palazzo Giustiniani. La sua indole di eterno dubbioso lo porta a dimettersi dall’incarico il 25 giugno 1947. Nella notte De Gasperi lo convince a non insistere: il giorno dopo l’assemblea costituente lo rielegge nuovamente, questa volta con una votazione quasi unanime, 405 voti su 431 votanti.
Appena insediatosi rinuncia immediatamente all’assegno di 12 milioni di lire al quale aveva diritto e, anche nelle occasioni solenni, continua a usare un vecchio cappotto rivoltato. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il primo gennaio 1948, il suo titolo ufficiale si trasforma in quello di presidente della Repubblica: sempre da palazzo Giustiniani e sempre con il suo cappotto continua a esercitare il mandato fino al maggio di quell’anno. Poi toccherà a Luigi Einaudi.
Fonte Ansa.it