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Radio Radicale, Tav, Europa: Di Maio grida “Al lupo al lupo”, ma non gli crede più nessuno

 

Si agita, alza la voce, scrive post dai toni enfatici, minaccia crisi di governo e poi si ammansisce. E fa quello che vuole il suo alleato. Dopo la sconfitta imprevista alle elezioni europee Di Maio si è ritrovato con una pistola ad acqua. Il Movimento Cinque Stelle rimane il primo partito in Parlamento ma la maggioranza del Paese è con la Lega e si fa quello che dice Salvini. Decreto sicurezza bis, i finanziamenti a Radio Radicale, il caso Arata, la crisi Whirlpool e la Tav. Il capo politico M5S grida «Al lupo al lupo», annuncia ritorsioni se si va contro gli interessi del Movimento, ma alla fine della giornata rimane lì, ben saldo sulla poltrona. Tutto gravissimo, ma si va avanti.

Nessuno crede più alle minacce enfatiche di Di Maio perché sanno che la fine del governo gialloverde coinciderà con il tramonto della sua carriera politica. È come sentire urlare uno di voler tagliare il ramo dell’albero dove è seduto. «La Tav non si farà» e sono partiti i bandi che solo una maggioranza in Parlamento può fermare. «In Europa faremo sentire la nostra voce» ha scritto due giorni fa sul blog delle stelle e il M5S rischia di finire nel settimo eurogruppo o peggio tra i non iscritti. «Mi preoccupa la deriva di ultradestra di Salvini» e vota il decreto sicurezza bis. Abbiamo un sospetto. Forse il lupo c’è, ma è Salvini: più coerente, più votato e più esperto che a poco a poco sta spolpando il suo alleato di governo, osso dopo osso, caso politico dopo caso politico.

L’ultimo esempio ieri. Da mesi il M5S non vuole concedere i finanziamenti pubblici a Radio Radicale nonostante morti eccellenti, scioperi della fame e appelli dei mass media. Di Maio la considera una storica battaglia del Movimento e ha promesso che sarebbero andati avanti senza fermarsi davanti a nessuno. Ma ieri tutti i partiti, compreso la Lega, hanno approvato un emendamento al decreto crescita per dare 3 milioni alla radio. «Secondo noi è una cosa gravissima, di cui anche la Lega dovrà rispondere davanti ai cittadini.

Sono franco: dovrà spiegare perché ha appoggiato questa indecente proposta del Pd!». Scrive su Facebook Luigi Di Maio. Detta così, ci si aspetta le dimissioni in blocco dei ministri pentastellati, il crollo del governo. Se la Lega dovrà «rispondere davanti ai cittadini» lo farà alle urne. E invece no, Di Maio frena. «Dopo di che si va avanti, perché siamo persone serie». Ah, ecco. Allarme rientrato. Quindi la Lega dovrà rispondere ai cittadini ma un po’ più in là. Magari tra quattro anni. Di Maio si comporta come un doroteo qualunque, ma forse con meno acume politico.

Stesso atteggiamento per l’arresto di due giorni fa di Paolo Arata, l’ex deputato di Forza Italia diventato consulente della Lega per l’Energia. Prima delle elezioni europee per settimane Di Maio ha chiesto le dimissioni del leghista Armando Siri indagato per corruzione perché accusato di aver acconsentito a ricevere trentamila euro dallo stesso Arata. Di Maio ha commentato l’arresto: «La puzza di bruciato si sentiva da lontano. Ogni volta che c’è un minimo sospetto su qualcosa, in cui emergono legami con la corruzione e la mafia, la politica deve saper subito prendere le distanze». Com’è andata a finire? Salvini non ha preso le distanze.

E il leader della Lega non si è neanche presentato all’audizione chiesta dal grillino Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia. Un messaggio per far capire quanta paura ha il leghista delle ritorsioni del suo alleato. Per giorni il M5S ha bloccato l’attività di governo per ottenere le dimissioni di Siri. E ora che è stato arrestato il presunto corruttore e socio di Nicastri, considerato dall’accusa il prestanome del latitante mafioso Mattia Messina Denaro, non fa nulla? Forse la questione morale va a corrente alternata.

«Non si prende per il culo lo Stato italiano. Non con me, non con questo governo» ha detto in modo enfatico Di Maio ai dirigenti della Whirlpool, la multinazionale di elettrodomestici che due settimane fa hanno annunciato di voler chiudere lo stabilimento di Napoli con 420 dipendenti. «È finita l’epoca in cui le multinazionali firmano accordi, prendono i soldi dallo Stato e poi fanno quello che vogliono. Le aziende, gli imprenditori e i lavoratori italiani meritano rispetto. Revoco i finanziamenti alla Whirlpool se non manterrà gli impegni presi» ha minacciato ancora su Facebook.

E cosa ha fatto la Whirlpool dopo la minaccia del ministro? Nulla. Nada. Niet. Tutto è rimasto così com’è. Non solo. Anche l’annuncio della revoca degli incentivi è un ruggito del coniglio. Perché come ricorda Il Sole 24 ore non è così facile revocarli. L’accordo firmato il 25 ottobre al ministero dello Sviluppo economico prevede gli incentivi del governo in cambio di 250 milioni di investimento della multinazionale fino al 2021 in tutti i suoi stabilimenti, non solo quelli di NapolI. Difficile revocare gli incentivi, non ci sono basi giuridiche per togliere così in fretta incentivi. Senza contare che nei primi mesi del 2019 l’azienda ha già investito 90 milioni di euro. Invece di annunciare la minaccia di revoca ai quattro venti social , perché Di Maio non ha aspettato? Sarà pure una strategia alla Trump quella di alzare la posta in un negoziato ma se la tua arma è spuntata non sei credibile.

Ormai tutti, compresi i suoi alleati di governo conoscono il riflesso pavloviano di Di Maio: partire in quarta e poi ritrattare a mente fredda. Lui stesso ha ammesso di aver sbagliato a chiedere l’impeachment per il presidente della Repubblica dopo che Mattarella rifiutò di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia nel maggio 2018. Anche lì, toni enfatici, minacce al Quirinale e poi, con calma, trovò un altro nome. Per la cronaca, “l’indispensabile” Savona è stato mandato a presiedere la Consob perché da ministro degli Affari europei si è presentato solo una volta nelle riunioni con i colleghi europei.

Si potrebbe dire lo stesso di Autostrade per l’Italia. Prima la minaccia di revocare la concessione (che ancora c’è) e poi il timido coinvolgimento nell’acquisizione di Alitalia perché mancano i compratori. Lo schema è sempre quello: scoppia un caso politico, senza pensarci un attimo Di Maio trova il colpevole, mai se stesso, e annuncia punizioni esemplari. Poi tutti fanno come se nulla fosse e il leader M5S è costretto a fare marcia indietro o a sorvolare sulla minaccia fatta. E si ricomincia.

 

 

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