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Renzi ormai è solo il capro espiatorio del governo più populista d’Europa (e della nostra cattiva coscienza)

 

La parabola del potere segue in Italia una precisa scansione in quattro tempi, cui gran parte dei commentatori è tenuta ad attenersi rigidamente: lode sperticata, critica costruttiva, oltraggio maramaldo, sofferta autocritica. Per quanto riguarda Matteo Renzi, in mancanza di moglie, figli o altri parenti stretti disponibili a comparire davanti al tribunale dell’opinione pubblica, la quarta fase è stata inaugurata sabato da Michele Serra, che su Repubblica ha voluto mettere per iscritto il suo completo pentimento. «In quanto gonzo che gli aveva creduto, magari ho il diritto di ricordargli che non è per dividere e litigare che lo votammo in tanti», ha scritto nella sua Amaca, con trasparente riferimento agli slogan del primo Renzi, soprannominato l’unificatore (o era forse il pacificatore?). Un tratto della sua personalità del resto già emerso con chiarezza ai tempi di quella celebre intervista a Repubblica dell’agosto 2010 – dunque a proposito di un gruppo dirigente e di un segretario, Pier Luigi Bersani, appena trionfalmente eletti in un congresso, con le primarie dell’ottobre 2009 – intervista in cui, come ricorderete, l’allora sindaco di Firenze lanciava la gentile, affettuosa, unitaria parola d’ordine della «rottamazione senza incentivi».

Fin qui, tuttavia, saremmo ancora nell’ambito della legittima diversità di opinioni, oltre che di ricordi. L’affermazione davvero sconcertante, nell’articolo di Serra, è quella che viene dopo, e cioè: «L’idea che un governo possa cadere sulla prescrizione (materia da legulei, con tutto il rispetto) fa ridere i polli…». Affermazione sconcertante, eppure ripetuta in questi giorni dalla stragrande maggioranza dei commentatori. E proprio per questo tanto più sconcertante, a riprova di come, in tutta l’infinita polemica sui secondi e terzi fini degli uni o degli altri, il merito delle scelte sia totalmente rimosso. Fino al punto da far dichiarare candidamente che la questione della prescrizione – attenzione: non questa o quella determinata soluzione del problema, ma proprio il problema in sé – sarebbe «questione da legulei». Massì, ma a chi volete che importi quanto può durare un processo? Vorrete mica sostenere seriamente che i diritti degli imputati contino più della stabilità del governo Conte? Un ragionamento che ricorda, rovesciandone il senso, quella vecchia battuta di Roberto Benigni a proposito dei politici che pensano solo ai loro interessi, con uno che dice: «Voglio fare la riforma della Sanità», e l’altro che risponde: «Perché, ti senti male?».

La paradossale conseguenza di un simile modo di ragionare è che, in nome dell’imperativo morale di non spianare la strada a un governo Salvini, non solo non si cambia una virgola di tutti i principali provvedimenti di governo voluti e votati da Matteo Salvini, ma si ritiene addirittura provocatorio il semplice discuterne. E se adesso quello che state per obiettarmi è che oggi anche Salvini è contrario alla prescrizione, significa che questo modo perverso di ragionare vi ha tolto persino la capacità di seguire il filo di un discorso logicamente coerente (faccio ugualmente un ultimo tentativo: se la prescrizione è una porcheria, è giusto cancellarla; se è una fondamentale garanzia contro il rischio di restare sotto processo a vita, è giusto mantenerla, indipendentemente da cosa ne dicano o ne abbiano detto Matteo Renzi, Matteo Salvini o Matteo Messina Denaro, non vi pare?).

E così, mentre il Guardian titola «Di Maio chiama gli italiani in piazza contro il suo governo», e crede ingenuamente di individuare nella mossa del ministro degli Esteri un «segno delle tensioni tra M5s e Pd», l’intera stampa italiana continua a rimuovere i cinquestelle dal quadro, avendo ormai fatto di Renzi il perfetto capro espiatorio di tutti i problemi (intendiamoci: con il validissimo aiuto di Renzi, e com’era facile attendersi da un partito nato il giorno dopo la formazione del governo, con un’operazione che definire corsara è un eufemismo).

Resta lo spettacolo sconcertante non solo di un governo, ma di un intero paese – giornalisti, intellettuali, conduttori televisivi – che tiene in piedi questa assurda recita, elogiando ogni giorno i nuovi meravigliosi vestiti dello statista Conte, e persino la competenza dei ministri grillini, riempiendosi la bocca dei valori della solidarietà e della civile convivenza minacciati da Salvini, mentre si lasciano lì i decreti sicurezza e anche i vergognosi accordi con la Libia, e non si cambia una virgola di tutti quei provvedimenti che fino a ieri dovevano portarci alla bancarotta e oggi sembrano diventati innocui come zuccherini. Quanto alla prospettiva che il partito che sabato era in piazza contro la «casta» possa lavorare a un «Conte ter» grazie a una pattuglia di «responsabili» (probabilmente tra i primi a ricorrere contro il taglio dei vitalizi), beh, è solo l’ultimo delizioso paradosso di questo orrendo finale di legislatura.

 

 

 

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