Il movimento delle cose ha una direzione e spinge verso un asse tra Pd e Movimento Cinque Stelle. Gli indizi, i segnali che ne danno testimonianza cominciano a essere numerosi e corposi. Il voto – dato con i dem e in rottura con la Lega – a Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione europea (“Ha fatto suoi i punti principali del nostro programma” hanno detto i grillini). Il pressing su Salvini – ancora in tandem col Pd – per riferire in Parlamento sul presunto Russiagate. Pressing reso più stringente dall’attivismo del premier Conte che sulla questione russa interverrà il 24 luglio in Senato. L’attacco contro l’ipotesi di finanziare la Flat tax con gli ottanta euro di Renzi, un punto di contestazione che il Pd ha ripetutamente rivolto alla Lega nei termini in cui oggi lo fa Di Maio.
Si dirà che tre indizi non fanno una prova e che tra Pd e Cinquestelle continuano a volare stracci e ceffoni. Vero. Ieri, per dire, sul blog dei Cinquestelle compariva una sobria nota dove, per smentire i soliti retroscenisti che ipotizzano alleanze future tra movimento e dem, si ribadiva: “Non faremo mai nessuna alleanza con il Partito di Bibbiano!”. E da parte sua il segretario dem Zingaretti conferma: “Non c’è nessun governo Partito Democratico – Movimento 5 Stelle all’orizzonte, non è questo l’obiettivo. Noi abbiamo le nostre idee, se gli altri convergono ci fa piacere”.
Però, al di là delle schermaglie – qualcuno ricorda le bordate tra Salvini e Di Maio prima di andare al governo insieme? – le convergenze tattiche e strategiche sono sempre di più. Come le spinte interne ed esterne ai due partiti per limare gli spigoli e accorciare le distanze. Nel Pd il grande tessitore di un contesto d’intesa è Dario Franceschini. Giorni fa, in un divano del Transatlantico a Montecitorio, con aria serafica, disquisiva con alcuni suoi colleghi sulla politicità di Mario Draghi. La conclusione del concilio era che nel caso di un governo di transizione istituzionale – buttato lì come ipotesi – l’ex presidente della Bce potrebbe essere una soluzione indiscutibile e tutt’altro che “tecnica” perché, appunto, “Draghi è profilo todo modo politico”.
Dopo il Russiagate e il riacuirsi della guerra di posizione tra Salvini e Di Maio si è tornati a parlare molto di governi di transizione, istituzionali o di salvezza nazionale che dir li si voglia. Come si è tornato a parlare di elezioni anticipate: dopo la legge di bilancio però e non a dicembre ma a primavera 2020. A una scomposizione dell’attuale inconcludente maggioranza rivolgono del resto i loro desiderata ambienti nazionali e internazionali di considerevole peso.
Il Quirinale, come sempre, non si espone, e Mattarella – come riportano fonti del Colle – non avrebbe nessuna intenzione di forzare la situazione. Tuttavia, di fronte alla possibilità di una maggioranza alternativa in Parlamento, non esiterebbe a percorrere questa ipotesi. Ipotesi che dispiacerebbe ad ambienti europei e americani (non trumpisti) allarmati dai rapporti veri o presunti della Lega con la Russia. Fonti di agenzia riportano peraltro che questa ipotesi è ritenuta possibile se non probabile all’interno della Lega. Dove si teme che le fibrillazioni continue all’interno della maggioranza provocheranno alla fine l’incidente fatale. E se oggi Zingaretti dice che non c’è all’ordine del giorno nessuna opzione di un’alleanza Pd-Cinque Stelle non è detto che l’agenda di domani – e come insegnava Rossella O’hara “Domani è un altro giorno” – non possa cambiare.
Che succederebbe infatti se, nei prossimi mesi, a far saltare il banco non fossero i Cinque Stelle – che si limiterebbero a logorare i nervi di Salvini e dei suoi con uno stillicidio di veti e di No – ma fosse lo stesso leader leghista pressato dai suoi e nella condizione di dover uscire dall’inagibilità indotta da un immobilismo coatto? Che accadrebbe insomma – per dire una cosa concreta – se il processo dell’Autonomia, finora fortemente contrastato dai Cinquestelle a grande scorno dei governatori del nord, dovesse essere rallentato fino ad essere addirittura fermato? Semplice: il governo potrebbe saltare in aria perché Salvini sarebbe costretto a staccare la spina.
Ed ecco che a quel punto chi dovesse esplorare la possibilità di un governo di scopo o di transizione (un Conte Bis? Un esecutivo guidato da una figura di rilievo come Draghi? Chissà) con la Lega all’opposizione non avrebbe nemmeno da difendersi dalle accuse di colpo di mano che potrebbero essergli rivolte. Certo in caso di crisi di governo c’è anche la via delle elezioni anticipate. E sia i Cinque Stelle che Zingaretti avrebbero forse dei motivi per preferirle alla permanenza in Parlamento con un governo istituzionale, seppure politicamente connotato e in grado di deprivare Salvini del ruolo di mattatore che gli elargisce visibilità e consenso. I primi perché non regalerebbero alla Lega l’argomentazione di aver assecondato un’operazione di palazzo, il segretario dem perché avrebbe con le candidature la possibilità di modellare i gruppi parlamentari a immagine e somiglianza del partito che ha in mente.
Ma anche l’ipotesi di elezioni anticipate – non prima della primavera 2020, un tempo sufficiente per provocare Salvini al punto giusto – vedrebbero ripresentarsi la logica d’un fronte comune antileghista. Il Pd derenzizzato e il movimento Cinquestelle guidato da una leadership diversa dall’attuale si troverebbero sulla stessa barricata, in un’alleanza depurata dai veleni trascorsi perché siglata da attori diversi rispetto a una stagione già ora in dissolvenza.
Un’ipotesi, questa, benedetta sin da oggi da Davide Casaleggio e alla quale, a vario titolo e con diverso stile, stanno lavorando il presidente della camera Roberto Fico, l’outisder in cerca di ruolo e d’autore Alessandro Di Battista come gli euro pentastellati Cataldo e Corrao, i registi del voto a Von der Leyen. La politica, come insegnava un suo scienziato, è altamente irrazionale ma segue una logica ferrea. Il contratto tra Lega e Cinque Stelle è di fatto esaurito; in assenza di un centro – che non c’è più – il destino del quadro politico italiano è quello di ripolarizzarsi tra destra e sinistra.
Massimiliano Smeriglio, il vice di Zingarettti in Regione Lazio, dice spesso quello che il segretario Dem pensa ma tace. Che la vocazione maggioritaria del Pd è un’illusione, che occorre porsi il problema delle alleanze, che se Salvini federa la destra compito del Pd è federare la sinistra. La logica delle cose appunto.
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