È inutile girarci intorno. I sovranisti non sono capaci di costruire una nuova Europa. Possono soltanto distruggerla. Rivoluzione Europa: subito e con chi ci sta. Essere franchi sui limiti e sugli errori dell’Unione Europea non vuol dire dipingerla come un fallimento o, peggio ancora, farne il capro espiatorio di problemi globali dei quali non ha colpa. Per dirla con Ludovico Geymonat, la severità di giudizio è sempre più appuntita verso le cose che ci sono più care. Ed è un bene che sia così, se ci spinge a prendercene cura. Oggi amare l’Europa vuol dire cambiarla.
Partendo dalle tante conquiste europee, che non sono solo – e dico poco – la pace in un continente devastato da due conflitti mondiali soltanto nel secolo scorso, la moneta, il mercato unico, gli scambi culturali e i passi avanti sulle politiche di coesione: dall’ambiente alla cooperazione per lo sviluppo, dalla tutela della concorrenza alla privacy, l’Unione Europea ha tanto da insegnare al resto del mondo. Allo stesso tempo, essere altrettanto franchi sul vicolo cieco in cui ci stanno conducendo i sovranisti al potere non vuol dire illudersi che lasceranno presto il campo politico e tutto tornerà come prima.
Serve un big bang in grado di rilanciare la costruzione europea, per riavvicinarla ai suoi cittadini e agli ideali dei suoi padri fondatori. Le leve di questa rivoluzione per noi sono le proposte contenute nei quattro capitoli di questo libro: (1) sdoppiamento istituzionale, (2) Unione fiscale, (3) Unione sociale, (4) politica industriale. Sdoppiamento istituzionale Il capitolo di Clementi e Fabbrini dimostra che sono le istituzioni europee che devono cambiare, non solo le politiche europee, checché ne dicano molti conservatori dello status quo che ancora si annidano a Bruxelles e non solo.
Il metodo intergovernativo applicato a problemi che in buona parte hanno una componente comune non funziona, prigioniero com’è delle distorsioni e della volatilità delle competizioni elettorali nazionali che si susseguono ogni anno nei paesi europei. Come scrivono, “l’Unione è giunta a un punto di svolta storica”, che deve “consentire a chi vuole o ha bisogno di creare un’unione sempre più stretta di fare passi in avanti e, allo stesso tempo, garantire che tutti partecipino al mercato unico (a condizione che rispettino i criteri dello stato di diritto)”.
Non si tratta di creare un club sportivo a cui tutti si iscrivono e poi alcuni giocano a calcetto e altri a tennis: anche l’integrazione differenziata per singole materie non ci porterebbe da nessuna parte, creando ancora più confusione istituzionale e allontanando i processi decisionali dalla vita delle persone. Serve un nuovo patto politico, chiaro e solenne, con chi ci sta. Preservando (ed eventualmente allargando) il mercato unico e consentendo che si formi al suo interno un gruppo ristretto di paesi pronti a dar vita a un’unione federale.
Non stiamo parlando di creare né un super Stato europeo né un’associazione di stati europei, ma un’unione federale che costruisca una nuova sovranità su un nucleo forte ma circoscritto di problemi comuni, lasciando alla sovranità nazionale tutto il resto (sì, perché ci sono alcuni temi di cui adesso si occupa l’Unione Europea che possono tranquillamente tornare alla gestione dei singoli stati). Al centro dell’unione federale dovrebbe crearsi uno spazio politico e di discussione pubblica genuinamente europeo. Servono – anche se Clementi e Fabbrini non si spingono fino a lì – un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera e strumenti di partecipazione permanenti.
Per arrivare a tanto, serve chiarezza su alcuni punti istituzionali: l’unione federale si fa con chi ci sta, senza poteri di veto, e creando nuove istituzioni. E serve chiarezza su alcuni punti politici: se la Germania è terrorizzata dagli element serve una politica di bilancio a gestione europea che completi l’Unione monetaria con un’Unione fiscale per gestire la domanda aggregata, partendo proprio dai paesi dell’Eurozona pronti a compiere questo passo. Si tratta di creare una vera e propria istituzione politica di livello europeo che sia in grado di emettere bond per gestire la domanda aggregata nel caso di crisi economiche e per intervenire nel caso di crisi finanziarie o sovrane sistemiche, usando come garanzia flussi futuri di gettito fiscale ceduti dai paesi aderenti.
Anche in questo caso, si tratta concretamente di costruire una nuova sovranità, affidandola a una politica europea che superi la logica intergovernativa. Come spiegano Galasso e Tabellini, sarebbero soprattutto i paesi come l’Italia a trarre benefici da questo meccanismo, per il semplice fatto che il nostro debito pubblico e la perdita del ricorso a svalutazioni competitive ci rendono non solo particolarmente vulnerabili a crisi finanziarie, ma incapaci di azionare le necessarie leve congiunturali quando siamo colpiti da una recessione economica.
Proprio per questo, però, la loro raccomandazione politica è altrettanto precisa: per convincere i paesi del Nord Europa a creare un’Unione fiscale, l’Italia deve ridurre il suo debito pubblico, abbassando il livello di rischio sistemico, e intraprendere riforme strutturali, aumentando la sua competitività. Non esistono scorciatoie. Unione sociale Il capitolo di Ferrera e Leonardi fa un passo ulteriore verso un’unione ancora più stretta.
La proposta è quella di creare un’Unione sociale che radichi la cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Passare dall’attuale pilastro sociale a un’Unione sociale non è mero formalismo, perché in questi casi la forma è sostanza e si nutre dei necessari strumenti istituzionali. Come scrivono, “l’esperienza delle federazioni storiche insegna che la creazione di mercati unici e unioni monetarie deve essere integrata da alcuni corollari sociali con funzioni di stabilizzazione sistemica, a sua volta presupposto di adeguati livelli di legittimazione politica”. Non si tratta di creare uno stato sociale federale, ma un’unione tra stati sociali, molto diversi tra loro, in modo da aiutarli nell’assicurare protezione ai propri cittadini e promuovere nello stesso tempo “un certo grado di solidarietà paneuropea”.
Tra le proposte che avanzano per sostanziare questo zoccolo duro di diritti e programmi sociali, ne ricordo due di particolare portata: uno schema europeo di assicurazione contro la disoccupazione e una Children Union per il contrasto alla povertà educativa. Presente e futuro. In particolare, un sussidio europeo per la disoccupazione avrebbe due meriti: uno macroeconomico e uno politico. Rispetto al primo, si creerebbe un meccanismo di stabilizzazione automatica, finanziato con risorse comuni, in grado di assorbire shock che colpiscono in maniera diversa paesi diversi.
E lo si farebbe con uno strumento che, a differenza di altri che sono stati proposti, non creerebbe un trasferimento permanente di risorse dai paesi del Nord verso quelli periferici, per il semplice fatto che le dinamiche del mercato del lavoro, nel corso del tempo, hanno mostrato andamenti diversi in entrambe le direzioni nelle due aree. Il secondo vantaggio sarebbe politico. Di fronte all’avanzata dei partiti sovranisti, fare in modo che i disoccupati europei ricevano un assegno firmato dalla nuova Unione rafforzerebbe il consenso intorno a una nuova idea d’Europa. Su un punto dobbiamo essere chiari, però.
Il progetto di un’Unione sociale comporta anche un certo grado di redistribuzione di rischi e risorse tra cittadini europei. Su questo punto non possiamo essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore. Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato il movimento operaio e le forze politiche socialiste, popolari o liberali. In Italia, c’era chi la redistribuzione la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta a livello europeo. Non possiamo più nascondere la testa nella sabbia.