Il fronte democratico che doveva impedire a Matteo Salvini di assumere i pieni poteri appare ogni giorno più al di sotto del compito, ostaggio dei propri e persino degli altrui pregiudizi, come dimostrano non solo le scelte di governo compiute finora, in perfetta continuità con il governo precedente, ma persino la loro tempistica. A cominciare dall’imbarazzante richiesta di posticipare il voto della giunta sul caso Gregoretti – quello che avrebbe dovuto ristabilire finalmente il primato del diritto e privare l’aspirante tiranno dell’immunità – a dopo le elezioni regionali, perché prima magari porta male. Ma lo stesso si potrebbe dire dei decreti sicurezza, vale a dire il principale intervento legislativo teso a piegare il nostro ordinamento verso il modello ungherese, che sono ancora lì, intonsi. È come se dopo il 25 luglio gli antifascisti avessero passato i successivi quattro mesi a ripetere che le leggi speciali non andavano abrogate, semmai lievemente modificate in accordo con i rilievi della Corona, e comunque senza fretta. Dunque, le cose sono due: o la minaccia dell’autoritarismo salviniano era una barzelletta, o lo sono i nostri aspiranti liberatori.
Sfortunatamente, la minaccia allo Stato di diritto e alla divisione dei poteri portata dal leader leghista è tutt’altro che un’invenzione, come dimostra proprio il caso Gregoretti (e il precedente, identico, della Diciotti). E come confermano al di là di ogni ragionevole dubbio le parole pronunciate ieri dallo stesso Salvini, che minaccia di organizzare una manifestazione contro la possibilità che il parlamento lo mandi a processo per quello che ha fatto.
Se non fossimo da tempo tutti impazziti, il dibattito sul caso Gregoretti (come sul caso Diciotti) avrebbe dovuto essere piuttosto lineare: da un lato i difensori delle garanzie costituzionali poste a tutela dei diritti dell’individuo dagli abusi del potere (politico o giudiziario), dall’altro coloro che a quelle garanzie antepongono il mandato, che sostengono di avere ricevuto direttamente dal popolo-nazione, a realizzare il loro programma, posto pertanto al di sopra di tutto (diritti, leggi, principi). Ma nel mondo alla rovescia in cui purtroppo ci stiamo abituando a vivere, abbiamo invece i garantisti che danno ragione a Salvini (forse perché convinti che essere garantisti significhi dare torto ai pubblici ministeri, a prescindere) e i populisti che lo difendono quando sono al governo assieme a lui e lo scaricano quando si ritrovano sul fronte opposto, dimenticando che il capo del governo era ed è sempre lo stesso, ed è uno di loro. E dimenticandosi pure di Danilo Toninelli, che nel frattempo continua a rivendicare che la chiusura dei porti era tutto merito suo (l’ho già scritto ma colgo l’occasione per ripeterlo: qualcuno lo avvisi). Come se non bastasse, persino Carlo Calenda, che pure è all’opposizione e dovrebbe essere più libero di dire le cose come stanno, spiega che per esprimersi sul caso Gregoretti dovrebbe prima «leggere le carte», e che comunque sul caso Diciotti, fosse stato in Parlamento, avrebbe votato per impedire il processo a Salvini.
Se tra gli esponenti di qualche partito minore di cui mi siano sfuggite le dichiarazioni ce n’è uno che abbia assunto una posizione ragionevole, anteponendo la difesa dello Stato di diritto e della democrazia al risultato delle regionali, mi scuso sin d’ora per l’omissione e prometto di fare ammenda la prossima volta.
Se ci sarà ancora la libertà di stampa, la prossima volta.
https://www.linkiesta.it/it/article/2020/01/11/gregoretti-salvini-decreti-sicurezza/45027/