Ricordate? Ancora a giugno, all’inizio di questa pazza estate italiana, le tensioni interne al governo gialloverde facevano prevedere una crisi imminente e proiettavano il centrodestra alla guida del paese. Se qualcuno avesse detto allora – una manciata di settimane in realtà – che la destra si sarebbe invece trovata a settembre all’opposizione e frazionata invece che unita e al governo lo si sarebbe trattato con la sufficienza che si riserva agli stravaganti.
Invece, e siamo al 5 settembre, è stato appena formato un governo Pd-Cinquestelle – oggi il giuramento, lunedì la fiducia – e quello che era il centrodestra non è solo stato spinto all’opposizione ma appare diviso e confuso, preda di polemiche interne, percorso da diffidenze e veleni, gelosie e rivalità, oscillante tra l’appello alle piazze e la nostalgia dei palazzi perduti, per un colpo di testa, per un colpo di sole. Una destra a ranghi sparsi senza nemmeno un’intesa di massima su come fare fronte comune contro quello che si presenta a tutti gli effetti come un nuovo centrosinistra.
Salvini twittava ieri che “Il tempo è galantuomo alla fine vinceremo noi”, può darsi, ma intanto la Lega perde qualche punto di consenso nei sondaggi e al nord è percorsa da tensioni nervose. L’altro ieri l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti lamentava con la consueta aria un po’ depressa: “Ormai l’autonomia ce la scordiamo”. Una cosa che in Veneto e Lombardia non viene presa benissimo. I governatori Zaia e Fontana imputano a Salvini il fatto di aver concesso troppo al meridionalismo durante l’alleanza di governo con Di Maio e di essersi concentrato sulla Lega nazionale invece che sulle ragioni del nord. Mentre si teme per i risultati delle regionali di Umbria ed Emilia, che venivano già date per conquistate dal centrodestra.
Il timore che serpeggia tra i quadri leghisti è che l’elettorato meno militante e più riflessivo diffidi, dopo il rocambolesco esito della crisi di governo, della capacità di Salvini di mettere a sistema il consenso. Per uscire dall’angolo Salvini ha convocato per ottobre la piazza a Roma da cui risuoneranno le accuse contro il “governo ribaltonista”, come viene già definito il Conte-bis dal discorso leghista, e la messa in stato di accusa di un esecutivo colpevole di aver impedito le elezioni e di essere organico all’Unione europea. Un ritorno al movimentismo e una scommessa sul fallimento del Conte-bis.
A guardar bene è lo stesso schema che ha scelto di seguire Giorgia Meloni, la quale tuttavia contesta a Salvini la dilazione della mobilitazione popolare. Le elezioni negate, secondo la Meloni e i suoi, infatti, richiedono una mobilitazione immediata di piazza per denunciare in diretta il presunto strappo democratico che Pd e Cinquestelle starebbero consumando ai danni della nazione. E infatti la leader di Fratelli d’Italia ieri al grido di “No all’oscena spartizione delle poltrone” ha convocato lunedì davanti a Montecitorio una manifestazione di protesta mentre si voterà la fiducia al governo.
È comunque evidente una polemica sottotraccia tra la Lega e Fratelli d’Italia che rivela lo stato di tensione esistente tra i due partiti. Meloni contesta a Salvini, e a dire il vero non da oggi, la dilazione e il rifiuto di saldare in un’alleanza formale le due forze sovraniste. E d’altra parte Salvini non ha mai nascosto con i suoi di voler perseguire una sorta di vocazione maggioritaria per la Lega che le circostanze attuali dovrebbero, secondo i suoi calcoli, implementare. E del resto nella percezione dei vertici del Carroccio potenziali alleati come la Meloni sono percepiti come degli ausiliari di complemento. Non è meno smarrita la terza gamba del centrodestra: Forza Italia sembra oscillare tra la spinta all’opposizione e la tentazione di un sostegno esterno al nuovo governo. Gli azzurri non voteranno la fiducia e parlano di “governo più a sinistra della storia” ma poi in sostanza sarebbero già una trentina i parlamentari (più di venti al Senato) pronti a puntellare l’operazione Conte, gli stessi che erano già disponibili a sostenere “l’ipotesi Orsola” del governo istituzionale.
Insomma il panorama della destra italiana – che pure gode ancora di un consenso popolare ampio nel paese – appare ombroso e incerto soprattutto adesso che il potere – il grande fluidificatore – si allontana e la sua assenza esaspera fisiologicamente divisioni e fratture. Tuttavia questa stessa conflittualità esisteva anche quando era ancora tutta in piedi l’ipotesi di un centrodestra a favore di sondaggi e proiettato al governo del paese. Ed è il medesimo fattore di rissosità, di incapacità di fare rete e sistema, di deporre i personalismi, di trovare una sintesi culturale e programmatica ad aver minato i governi di centrodestra degli anni passati. Che una volta detronizzata rimette puntualmente mano al repertorio di accuse ai poteri forti e alle congiure dell’establishment senza mai passare per un serio esame di coscienza sulla propria incapacità di avere una chiara cognizione delle forze in campo e di diventare credibile alternativa al sistema facendosi a sua volta sistema. Sicché quella della destra italiana che oscilla tra piazza e palazzo sembra l’eterna parabola di Gasperino il carbonaio del Marchese del Grillo che si trovò a palazzo per uno scherzo e si risvegliò di nuovo carbonaio credendo d’aver sognato. Maledicendo chi l’aveva svegliato e naturalmente il destino cinico e baro.
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