Salvini ha richiuso nel cassetto, per ora, la pistola delle elezioni anticipate. A lungo e nervosamente accarezzata in questi giorni di timori sulla tenuta della maggioranza. A rassicurarlo la normalizzazione di Di Maio, che Salvini aveva posto come condizione per la prosecuzione della legislatura. Il nuovo contratto non scritto ma tacito tra Lega e Cinque Stelle prevede la precedenza nell’agenda di governo di tutte le priorità leghiste, derubricando di fatto le iniziative grilline a esigenze secondarie. Il Si alla Flat tax “per i ceti medi”, pronunciato da Di Maio è il segno di riconoscimento della dominanza leghista e di una minorità politica sopraggiunta col disastro del voto europeo. Eventuali elezioni anticipate avrebbero infatti come risultato il dimezzamento della compagine parlamentare cinquestelle e la fine della leadership di Di Maio.
Il discorso di Giuseppe Conte ieri alle Camere per riferire sul consiglio europeo rispecchia questo nuovo equilibrio e insieme costituisce il tentativo, un po’ disperato, di tenere insieme le rassicurazioni verso l’Europa e le rivendicazioni italiane. “Dobbiamo evitare la procedura d’infrazione ma senza rinnegare la nostra politica economica” dice il premier che così prova a mediare. Nella lettera spedita in tarda serata a Bruxelles si reitera la stessa genericità: viene espressa l’intenzione di rispettare i parametri Ue ma senza la spcifica sulle misure che l’esecutivo intende mettere in campo salvo rivendicare la strada della riduzione fiscale.
Mediare tra spinte divergenti nel governo dunque che poi si riducono a due: la prudenza del tandem Tria-Conte e la volontà di Salvini – l’intendenza Cinque Stelle segue – di andare allo scontro con Bruxelles. Ma il compromesso adombrato dal premier ha contorni appunto indefiniti. Che significa infatti “sollecitare maggiore disponibilità, nel prossimo bilancio europeo, di aiuti per gli investimenti?” L’Europa vuol sapere se l’Italia ha intenzione di correggere i conti o no, e relativamente alla risposta di Roma procedere o no al voto sull’apertura della procedura di infrazione.
A sciogliere l’equivoco dei toni felpati dell’avvocato degli italiani ci ha tuttavia pensato Matteo Salvini. Il vicepremier leghista non nell’aula di Montecitorio con il premier (e non c’è nemmeno Di Maio, l’altra assenza significativa) è davanti Facebook, dove spara un post duro e chiaro. «Choc fiscale, taglio delle tasse alle imprese e rilancio degli investimenti, questo occorre – dice il vicempremier -, altrimenti si passeggia e io non voglio un Paese in cui si passeggia». Poi dopo l’avvertimento a chi pensa di andare a Bruxelles per una passeggiata Salvini, per sovrammercato, scandisce il “chi va là” all’Unione: «alcuni vincoli Ue sono stati studiati a tavolino per aiutare qualcuno, come Parigi e Berlino, e fregare tutti gli altri, ma attenzione qui di governi fessi non ce ne sono più». Parole che non rispecchiano esattamente l’animo di chi sta cercando “il realistico compromesso” auspicato da Conte e dal ministro del Tesoro Tria, peraltro appena reduce da un frontale con Salvini su tempi della flat tax e taglio delle tasse.
Quelli di Salvini sono toni di guerra, non di negoziato. Ma sono i toni di chi sa, o presume, di avere sedato il fronte interno. Si dirà: e il voto grillino in vigilanza Rai contro il presidente di Viale Mazzini Foa difeso dalla Lega? E le eccezioni di merito e metodo che si paventano sulla partita della giustizia? Ammuina direbbero a Napoli. Schermaglie secondo copione. Le bordate contro Foa nulla mettono e nulla tolgono, ledono semmai immagine e ruolo dell’ad Salini mentre sulla riforma della giustizia non sembrano esserci divergenze drammatiche. Ieri in Commissione giustizia è stata unanimemente approvata, per dire, la norma che modifica gli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. Riforma che prevede un’azione disciplinare nei confronti dei magistrati in caso di ingiusta detenzione. E dal vertice tra Salvini, Di Maio, il ministro della Giustiza Bonafede e quello della Pa Bongiorno, concluso poco prima dell’una di stanotte, sono usciti tutti concordi e soddisfatti. Al termine dell’incontro Bonafede ha annunciato che entro dicembre sarà approvata una riforma del processo civile e penale, che ha l’obiettivo di dimezzare i tempi dei processi. “Una riforma in cui – parole del ministro – si dovrà inserire anche il Csm, e la meritocrazia che deve avere uno spazio centrale nella carriera e per ambire a ruoli apicali”.
Ai Cinque Stelle restano insomma battaglie in cogestione con la Lega e temi bandiera: «Il minimo sindacale per salvare almeno la faccia – come diceva ieri un deputato Cinque Stelle, un po’ depresso, che si aggirava in Transatlantico – ci lasciano parlare su questioni non urgenti né dirimenti, ma il senso e la direzione di marcia la dà Salvini». La marcia appunto, contro “la passeggiata”. Perché Salvini, che ha ufficialmente ottenuto la golden share del governo e non vede più la necessità di provocare la rottura e andare a votare, adesso vuole alzare il tiro e rilanciare. Aprendo il fronte sull’Europa in nome della Flat Tax e della sovranità sui conti pubblici. È su questa trincea che tenterà di generare la nuova linea di mobilitazione ideologica e mettere in mora le resistenze interne di Conte e Tria. Le ultime dentro il governo. Mobilitazione dentro cui, all’occorrenza, getterà anche l’arma dei minibot di Borghi e Bagnai sulla cui difesa è sceso anche Di Maio.
Salvini è convinto, grazie al presunto ombrello americano e a una logica di deterrenza, che Bruxelles non andrà fino in fondo, “perché non conviene nemmeno a loro”, sicché nella gara a chi frena dopo nella corsa verso il burrone pensa di poter uscirne da vincitore. Per questo non frenerà per primo. E per lo stesso motivo è molto probabile che la procedura d’infrazione partirà. E non sarà uno scherzo, perché al peso delle sanzioni si dovrà aggiungere l’allarme degli investitori, l’aumento di interessi sui titoli del debito e l’occhiuto controllo sui nostri conti.
Salvini nella sua baldanza trascura due elementi. Il primo è che troverà Conte e Tria a opporsi sulla strada che ha intrapreso. Soprattutto Tria che ha già calato fendenti su minibot e ipotesi di politiche in deficit. A quel punto sarebbe inevitabile una resa dei conti interna al governo che si consumerebbe in mezzo al conflitto con l’Europa. E a Salvini – e Di Maio – si presenterebbe il problema di un rimpasto sui due quadranti più strategici dell’esecutivo: la presidenza del Consiglio e Via XX settembre. E sarebbe una roba enorme.
L’altro problema si chiama Sergio Mattarella: perché di fronte a una linea di condotta avventurista del governo, mirata a sfidare apertamente l’Europa fino a spingere il paese sull’orlo dell’Italexit, il presidente della Repubblica metterebbe in campo il proprio peso. Forse fino al punto di non firmare la legge di Bilancio. Insomma il confronto a distanza avvenuto l’altro giorno alla kermesse di Confartigianato tra l’inquilino del Colle e Salvini (“Occorre assicurare la solidità dei conti” ha detto Mattarella; “I conti sono in disordine per colpa dell’austerità” gli ha replicato il leader leghista) potrebbe essere solo il tiepido prologo d’uno scontro incandescente.
Del resto l’ordine dei fattori disegna una linea degli eventi che porta a un conflitto aperto e generalizzato: politico, istituzionale e continentale. E l’impressione, stando alla metafora salviniana, è un po’ quella che noi si vada alla guerra come si va per prati a Ferragosto, appunto passeggiando. È già accaduto. E non finì bene.
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