La singolare dichiarazione pronunciata ieri da Nicola Zingaretti («Non voglio andare al voto e farò di tutto per dare vita a questo governo») ha attirato l’attenzione di molti, sia per ciò che smentisce, sia per ciò che implica. Per quel che riguarda la prima parte («Non voglio andare al voto»), la notizia che al vertice del Pd si stesse facendo strada l’idea di chiudere l’esperimento del governo giallorosso e tornare alle urne ieri era al centro dei retroscena di tutti i principali quotidiani, ed è significativo che Zingaretti abbia scelto di parlarne apertamente. Del resto l’ipotesi era già stata esplicitamente formulata, perlomeno come extrema ratio, da diversi autorevoli dirigenti del Pd, segretario compreso. Quanto alla seconda parte della dichiarazione («farò di tutto per dare vita a questo governo»), quello che colpisce è che Zingaretti sembra dare per assodato che il governo sia attualmente un corpo morto, un cadavere in cui lui, come una sorta di dottor Frankenstein, vorrebbe infondere la scintilla della vita. Se non diffidassi per principio degli psicologismi, e tanto più degli psicologismi applicati alla politica, sarei tentato da un’interpretazione freudiana della dichiarazione, in cui il curioso lapsus lessicale della seconda parte pare premurarsi di smentire – inconsciamente – quanto dichiarato esplicitamente nella prima.
Ma forse non c’è bisogno di addentrarsi nei recessi della psiche per capire cosa sta succedendo. Basta e avanza il ragionamento che lunedì Goffredo Bettini ha affidato al suo profilo Facebook, e che non a caso apriva molti dei retroscena di cui sopra, essendo noto il consolidato rapporto tra il padre del “modello Roma” e il segretario del Partito democratico. Una lunga requisitoria contro la litigiosità della maggioranza, unica e sola causa di tutti i problemi, che portava alla conclusione, poi ripresa quasi testualmente da gran parte del Pd: «O si cambia registro o saranno inevitabili le elezioni». Con una decisiva postilla: «È del tutto evidente che in questo senso occorrerebbe una legge elettorale maggioritaria».
Riassumendo: all’indomani di elezioni che vedono, nella rossa Umbria, il centrodestra al 57 per cento, con Lega e Fratelli d’Italia da soli sopra il 47, a Bettini sembra addirittura «evidente» che per la strategia del Pd – in caso di rottura con i cinquestelle e voto anticipato – occorrerebbe una legge elettorale maggioritaria.
Potrà apparire leggermente controintuitivo, ma di sicuro non è un ragionamento inedito. In effetti, l’intero discorso sembra ripetere passo passo la strategia escogitata dallo stesso Bettini nel 2007, in qualità di coordinatore del Pd veltroniano, e nota alle cronache di allora come la teoria del «doppio colpo in canna». Di fronte alle molte difficoltà del secondo governo Prodi, anche allora interamente addebitate alla litigiosità della maggioranza, l’idea di fondo era che il nascituro Pd non doveva temere di rompere l’alleanza di centrosinistra e presentarsi alle elezioni anticipate da solo, facendo leva sulla logica della legge elettorale maggioritaria (voto utile) e puntando a polarizzare i consensi tra Pd e Pdl. In tal modo – proseguiva il ragionamento – non solo l’eventuale vittoria del Pd sarebbe stata ovviamente un trionfo (primo colpo), ma anche la più che probabile sconfitta sarebbe stata un successo (secondo colpo), perché lo avrebbe lasciato padrone dell’opposizione, forte di una percentuale tra il 35 e il 40 per cento. Il risultato fu che si andò effettivamente alle elezioni nel momento e nel modo peggiore per il centrosinistra, e il Pd raccolse il 33.1 per cento (due punti in più della lista Ds-Margherita alle elezioni di due anni prima), risultato che fu comunque celebrato come un successo straordinario. Solo che il Pdl arrivò al 37, e l’intero centrodestra al 46 (il Pd alla fine si alleò col solo Di Pietro, arrivando al 37: nove punti sotto).
La ragione per cui ricordo questa noiosa contabilità è che è purtroppo indispensabile per capire molto di quello che è accaduto dopo: vale a dire perché nemmeno la scissione guidata dal presidente della Camera Gianfranco Fini, con tutto quel che ne seguì, bastò a intaccare la maggioranza schiacciante conquistata dal centrodestra in quella tornata elettorale, e ci volle la crisi dello spread del 2011 perché Silvio Berlusconi si decidesse a dimettersi. Attenzione: perché lo decidesse lui, con i suoi tempi e alle sue condizioni. Nemmeno con il paese sull’orlo della bancarotta, infatti, si trovò mai in Parlamento una maggioranza capace di sfiduciarlo.
Ora trasferite un simile ragionamento all’Italia di oggi, mettendo Matteo Salvini e Giorgia Meloni al posto di Berlusconi e Bossi. E capirete perché penso che la minaccia del voto anticipato, lanciata da Bettini, non sia un’uscita estemporanea dettata dallo scoramento, ma il frutto di una strategia che è stata già messa in atto una volta, fino alle sue estreme conseguenze. E perché dunque, se tanto mi dà tanto, ci sia motivo di nutrire qualche preoccupazione per il futuro dell’Italia, e per la nostra stessa appartenenza all’Unione monetaria.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/10/30/pd-zingaretti-goffredo-bettini/44158/