Negli scorsi giorni il Breakthrough National Centre for Climate Restoration — un centro di ricerca e innovazione di Melbourne, in Australia — ha reso noto il report forse più allarmante sul cambiamento climatico letto finora. Un report dove si stima che in gioco c’è ovviamente l’esistenza della razza umana, ma accorcia tantissimo l’orizzonte temporale in cui gli sconvolgimenti raggiungeranno un punto di non ritorno. Il 2050. Fra trent’anni. La pubblicazione è stata considerato attendibile da varie fonti e sottoscritto anche dall’ex capo della difesa australiana.
L’unico modo di evitare quello che ad oggi appare inevitabile è una mobilitazione globale pari a quella capitata per la Seconda Guerra Mondiale: le grandi potenze politiche del mondo (ma anche le grandi aziende, le megacorporation colpevoli di gran parte dell’inquinamento che agiscono sul territorio globale sfuggendo a ogni tipo di regolamentazione) dovrebbero costruire nel più breve tempo possibile un piano di sviluppo a emissioni zero, cambiare il modello di crescita, mettere in discussione l’intero impianto ideologico neoliberista della società tutta (non più solo occidentale, ovviamente).
Il parallelo con la guerra è stato fatto anche da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, che sul Guardian indica nella crisi climatica la nostra vera, autentica, Terza Guerra Mondiale. Lo stesso giornale inglese, inoltre, ha voluto mettere l’accento sulla questione rinnovando il vocabolario, lasciando perdere la mediazione e chiamando le cose con il proprio nome. Non è cambiamento climatico, ma crisi climatica. E ha bisogno di essere presa sul serio dai decisori di tutto il mondo.
Basterebbe questo per mostrare come, da qualsiasi parte la si voglia guardare, la politica si stia comportando male. Soprattutto in Italia. Se il Partito Democratico ha dedicato parte della sua recente campagna per le europee al tema della crisi climatica (anche se un qualsiasi partito di sinistra dovrebbe mettere il tema come centro e fondamento della sua nuova agenda, brevi accenni seguiti dal nulla non sono certo sufficienti per tornare credibili), le forze di governo hanno atteggiamenti contraddittori a riguardo. Il Movimento 5 Stelle, che nasce sull’onda delle battaglie per l’ambiente unite a quelle per i beni comuni, sembra di colpo avere altre preoccupazioni; la Lega invece addirittura ha tolto dal tavolo qualsiasi riferimento al tema e ogni volta dichiara che ne viene interrogato, Salvini dichiara disinteresse e punta il dito sulla disinformazione.
Ma anche se il tema fosse al centro del dibattito nel nostro paese e anche se decidessimo di guidare il processo con una nuova regolamentazione per uno sviluppo sostenibile (cose che non succederanno, perché ieri il Senato ha sì approvato una mozione per contrastare il cambiamento climatico, ma ha respinto l’idea di dichiarare, come ha fatto invece l’Inghilterra, lo stato di emergenza), sarebbe tutto inutile. Questo perché nel mondo iperconnesso, in cui il Capitale si muove svincolato da confini e regolamentazioni, un’altra cosa che si muove senza riguardo dei confini e delle regolamentazioni è il clima.
I due elementi non sono messi lì per caso. Perché la crisi dell’intero sistema che stiamo attraversando — quella che gli intellettuali chiamano “grande regressione”; e che in modo diverso viene sviluppata in quella che gli scienziati prevedono come la “sesta grande estinzione” — è una crisi di assetto globale, in cui il clima gioca un ruolo fondamentale come effetto definitivo, e devastante, di una coda lunghissima di cui la politica è totalmente responsabile. Dopo anni di laissez-faire e di scaricabarile sulle generazioni future, adesso la “realtà” (abbiamo voglia a dire di essere nell’era dello storytelling: la realtà invece esiste, sia quando si tratta di conti economici, sia quando si tratta di sconvolgimenti climatici) è arrivata a chiedere il conto. E alla realtà non interessa molto che gli umani ci siano o meno.
Scrivendo del libro di Lorenzo Marsili La tua patria è il mondo intero, si sottolineava l’idea della “cosmopolitica” come unica strada per costruire una piattaforma di pensiero e azione efficace per i tempi che stiamo per affrontare. L’idea di rinchiudersi nel narcisismo consolatorio delle piccole patrie, con i confini sicurissimi, senza nessuna idea di discorso comune, è di per se un sabotaggio che gli elettori sovranisti fanno a tutti noi (compresi loro stessi). Di contro, bisogna dire che la stessa Europa dovrebbe politicamente essere più incisiva su un discorso comune vincolato più a temi sociali, ambientali e lavorativi che non puramente economici e di controllo dei conti. Questo perché la dimensione continentale può davvero essere quella in cui la politica può tornare a essere attrice fondamentale, soprattutto per l’orizzonte che più sta dimostrando debolezza in questa fase storica: la sinistra (ad esempio, in queste ore si sta accogliendo bene la vittoria in Danimarca dei socialdemocratici, ma le loro posizioni sui migranti sono — senza mezzi termini — di destra: Bruxelles abbiamo un problema).
I partiti politici di sinistra, e di centrosinistra, dovrebbero abbandonare l’agenda politica che stanno seguendo — che nel migliore dei casi rappresenta una blanda ricetta neokeynesiana inattuabile allo stato attuale; nel peggiore dei casi una semplice risposta all’agenda della destra, accusando subalternità e giocando alle regole dell’avversario — per portare la battaglia a un livello successivo. I leader di tutta Europa (a iniziare da quelli che più hanno la possibilità di ricostruire dalle macerie, gli italiani) dovrebbero andare nei consessi europei e spingere per un’agenda internazionalista basata su un’aggiornamento dei valori massimali della sinistra contemporanea e farne prassi e azione quotidiana.
Prima di tutto per cambiare il frame, poi per creare egemonia e infine per vincere le elezioni. Un’azione politica, più che burocratica. Che guarda all’orizzonte dell’avvenire per davvero, sperando di essere dalla parte di chi il sole lo vede sorgere. Ma per farlo dovremmo smetterla di dare retta alle isterie social, alle armi di distrazione di massa di Matteo Salvini e alle incoerenze di Luigi Di Maio e iniziare a guardare al “mondo intero”. La tradizione della sinistra sta nell’internazionalismo, nella battaglia mondiale per l’egemonia, la liberazione e il futuro.
È da lì che deve arrivare la scintilla per vincere questa Terza Guerra Mondiale che rischia di non lasciare più niente: quella per l’ambiente, ma anche quella per il futuro del lavoro, per l’automazione e per la nuova democrazia. All’orizzonte c’è quel futuro in cui tutto di colpo sembra possibile, direbbe Mark Fisher. Non abbiamo mai avuto bisogno di un’alternativa come in questo momento. Sarebbe ora che anche qui qualcuno capisse che la battaglia va portata al livello successivo. Altrimenti tanto vale mettersi lì a guardare lo spettacolo con la consapevolezza che no, questa volta non è un film catastrofista.
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