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Senatori a vita, il limite che esiste già

È un prestigioso club nato con la Repubblica che ha tra i propri iscritti politici, giuristi, industriali, scienziati, poeti, musicisti e scultori. Alcuni dei quali premi Nobel. L’albo d’oro del circolo, fondato più di 70 anni fa, è un elenco di 48 nomi: dieci sono entrati come membri di diritto ma la maggior parte (38) lo sono diventati per chiamata del Capo dello Stato. Retaggio dei tempi del Regno d’Italia, i senatori a vita sono giunti nell’era repubblicana attraverso l’articolo 59 della Costituzione. La norma viene ora modificata dalla proposta di legge sulla riduzione del numero di parlamentari che precisa il modo in cui va inteso il tetto dei cinque membri nominati dal “Re della Repubblica”. Vale a dire come un limite ai senatori vitalizi in carica. Del resto il precetto è stato sempre interpretato così dagli inquilini del Colle. Con due sole eccezioni.

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Le «tipologie»: di diritto e per nomina
«È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». In virtù di questo articolo della Carta hanno avuto un seggio vitalizio a Palazzo Madama, oltre agli 11 ex capi dello Stato, personaggi come Eugenio Montale (1967) e Norberto Bobbio (1984) e in passato don Luigi Sturzo (1952) e Trilussa (1950). L’ultima a ottenere l’onorificienza (per meriti in campo sociale), conferita da Sergio Mattarella, è stata Liliana Segre, reduce dell’Olocausto che ha riportato a cinque (dopo la morte di Claudio Abbado) i senatori a vita in carica di nomina presidenziale: oltre a lei, Elena Cattaneo, l’ex premier Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia. Tutti scelti da Giorgio Napolitano, ora membro di diritto in quanto Capo dello Stato emerito. Lo scorso giugno nessuno di loro votò la fiducia al governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle: Monti, Segre e Cattaneo si astennero; Napolitano e Rubbia erano in congedo; Piano assente.

Le due letture
Di senatori a vita si parla di solito in due occasioni. La prima: quando il loro voto diventa decisivo per la sopravvivenza di una maggioranza, come accadeva ai tempi del secondo governo di Romano Prodi, con conseguente violenta polemica da parte del centrodestra (Francesco Storace arrivò a dire che avrebbe consegnato a casa un paio di stampelle a Rita Levi Montalcini). La seconda: quando si discute del loro numero, perché è rimasta irrisolta l’interpretazione da dare a quel “cinque”. Si tratta di un numero chiuso (vale a dire nel complesso non possono sedere in Parlamento più di cinque senatori di nomina presidenziale) o, invece, ciascun presidente della Repubblica può nominarne cinque? In realtà l’interprrtazione prevalente è stata sempre la prima, quella restrittiva. Almeno fino al settennato di Sandro Pertini.

Il picco del 1992
Per il popolare presidente socialista l’articolo 59 della Carta permetteva a ciascun capo dello Stato di nominare fino a cinque senatori a vita. Indipendentemente da quelli già presenti a Palazzo Madama. Una lettura estensiva avvalorata dal parere favorevole della Giunta per il regolamento del Senato che portò a Palazzo Madama Leo Valiani (già membro dell’Assemblea costituente), Eduardo De Filippo, Camilla Ravera, Carlo Bo e Norberto Bobbio. Il successore di Pertini, Francesco Cossiga, seguì la stessa strada e nominò altre cinque personalità, tutte politiche: Giovanni Spadolini, Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani. Risultato: nel 1992 il numero di senatori a vita lievitò fino al massimo di undici.

La correzione
Chiusa la parentesi Pertini-Cossiga, si è tornati all’interpretazione originaria restrittiva che resiste da quasi trent’anni: è la Presidenza della Repubblica, in quanto organo, e non il singolo presidente, a poter fare le cinque nomine. Oscar Luigi Scalfaro così non esercitò il potere perché il “tetto” dei cinque in carica era già raggiunto e gli altri inquilini del Colle, usando la loro prerogativa, si attennero al limite complessivo. Adesso il disegno di legge costituzionale, approvato giovedì alla Camera in prima lettura, “corregge” l’articolo 59sul punto e stabilisce che «il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque».
Questo perché, ha spiegato la commissione Affari costituzionali del Senato, la vecchia formulazione lasciava «inalterata la possibilità di un’interpretazione, pur seguita in un passato non recente, che non sarebbe compatibile con un Senato di 200 componenti».

Il no di Toscanini
Quella esplicitata dal ddl costituzionale è l’interpretazione che permise a Luigi Einaudi di esercitare il diritto di nomina per ben otto volte: dovette sostituire il poeta romano Trilussa e il matematico Guido Castelnuovo (nel frattempo erano morti) ma anche Arturo Toscanini che, invece, aveva rifiutato: «È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma – scrisse il direttore d’orchestra nella sua lettera al capo dello Stato – che si rivolge a lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa».

In seguito anche Nilde Iotti e Indro Montanelli rifiutarono la nomina ma lo fecero preventivamente, quando seppero che sarebbero stati scelti da Cossiga. Quello di Toscanini del 1949 resta invece l’unico rifiuto a nomina già avvenuta.

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