Ma davvero un grande Paese può essere appeso agli umori di un comico che in età avanzata si sfizia con la politica, come un vecchio attore alle comiche finali che si esibisca dinanzi alle luci fioche della ribalta italiana? Eppure è così, a leggere i giornali, a passeggiare nel salone dei passi perduti di Montecitorio, a sentire le analisi di giovani cronisti folgorati dalla presunta sapienza tattica grillesca. Che poi stringi stringi si riduce alla solita illusione ottica: Beppe Grillo “è bravo” ma solo grazie alla debolezza della politica nel suo complesso.
E tuttavia effettivamente l’avvocato Giuseppe Conte inala quel tanto di ossigeno che gli farà scavallare i prossimi mesi (Emilia permettendo, non prendiamoci in giro) e consente all’avvocato Dario Franceschini di scommettere sulla strada in discesa una volta raffreddati i patologici bollori del mancato avvocato Luigi Di Maio.
Il fatto che il governo vada avanti perché così ha detto Grillo è tanto vero quanto inaudito e persino umiliante per chi crede nella politica come grande avventura ideale e razionale al tempo stesso. È la vittoria della non-politica, situazionista e falsamente moderna, quanto di più lontano vi possa essere dai modelli non diciamo progressisti ma appena appena liberali.
Ma comunque dobbiamo mettere a verbale il fatto politico delle ultime ore, cioè che il governo della settima potenza industriale del mondo dipende dagli scarti visionari di un personaggio emerso anni fa grazie alla tv commerciali, uno che appena ieri l’altro teorizzava l’eliminazione di partiti e sindacati e per questa via faceva finta di volere “il cittadino al potere” secondo locuzioni che a Jean Jacques Rousseau avrebbero fatto venire quell’orticaria che colpì poi il suo discepolo Marat, un attore che escogita tattiche day by day pur di conservare il privilegio (pur democraticamente conferito) di avere a disposizione i principali gruppi parlamentari, unitamente – non lo si dimentichi mai – ai lucrosi dividendi di un’azienda privata che tutto controlla del “Movimento” oltre che, infine, al proprio personale potere politico-mediatico-spettacolare.
Tutto va bene pur di passare ‘a nuttata, un’apertura di qua, un nuovo contratto di là (ma non si era detto che i contratti con la politica non c’entrano niente?). Tuttavia hic Rhodus hic salta, ritengono Zingaretti, Orlando e Franceschini, la storia quest’è, come si dice a Napoli, non è colpa nostra se invece di Aldo Moro o Bettino Craxi dobbiamo avere a che fare con “questi qua”.
Siamo perciò davvero a un punto critico dell’infinita crisi italiana. Il governo è nelle mani di un Movimento che non solo non è più da tempo un Movimento ma che nemmeno è riuscito a diventare un partito adulto, con regole democratiche, programmi e gruppi dirigenti. È piuttosto un gruppo di persone politicamente allo sbando e eterodirette da un istrione e da una Srl, mentre il cosiddetto “capo politico” è ridotto a una marionetta i cui fili vengono tirati – mo’ ci vuole – a sua insaputa e che tutto fa tranne quello per cui è pagato, ossia il ministro degli Esteri (e questo dovrebbe far suonare qualche allarme anche ai livelli istituzionali più alti).
Ora, se è Beppe Grillo a tenere in piedi la baracca, è per evidenza logica che sarà Beppe Grillo a sfasciarla quando egli riterrà più conveniente. Conveniente per gli affari suoi, certamente non per gli Italiani, quegli italiani all’epoca sollevati al grido del “vaffa”, surrogato parossistico di un certo irrazionalismo di inizio Novecento, quegli italiani oggi nella condizione di dover augurarsi un suo gesto, una sua parola, un suo sguardo per avere un minimo di governo del Paese, mentre crollano viadotti, si allagano basiliche, chiudono fabbriche, e attenti che sale lo spread.
Come sia possibile che partiti che pure conservano quel tanto di dignità intellettuale che gli consente di sopravvivere accettino con entusiasmo (per decenza trattenuto) resta un mistero che non può essere spiegato solo con lo stato di necessità. Se è plausibile il desiderio di stare al governo e anche realistico aborrire crisi e ricorso alle urne – ciò che sembra il più forte collante che salda Fratoianni a Renzi – dovrebbe però emergere, e non sembra emergere, una ribellione a una condizione di subalternità agli umori di un comico, artefice di una sorta di “maoismo 2.0” (Giuliano da Empoli parlò di “banda dei quattro”) che di fatto relega la politica italiana a un non invidiabile livello sudamericano.
La riflessione dunque dovrebbe investire tutti i leader dei partiti della maggioranza e spingerli a stipulare un contratto: ma con la propria coscienza e con i propri elettori alla ricerca di una nuova forma di dignità. Basta affacciarsi nelle piazze occupate dalle sardine per capirlo.
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