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Spaesato su tutto, il Pd ha regalato una vittoria alla demagogia grillina

Favorevoli 553, contrari 14, astenuti 2: un plebiscito. Ma dopo aver approvato in via definitiva alla Camera il taglio del numero dei parlamentari, il contrasto era sotto gli occhi di tutti. Fuori, in piazza Montecitorio, i Cinque Stelle in festa avevano già dato appuntamento ai giornalisti per festeggiare la storica vittoria, dietro gli striscioni con tanto di forbici e poltrone strappate. Dentro Montecitorio, si aggiravano invece le facce tese degli alleati di governo del Pd, con i sorrisi abbozzati, tutt’altro che contenti di aver premuto «convintamente», queste le parole del capogruppo Graziano Delrio, il tasto verde. Un voto frutto di un calcolo politico per blindare la legislatura sì. Ma soprattutto un boccone amaro da ingoiare per il Pd, dopo i tre voti contrari precedenti, che ora dà l’assist ai Cinque Stelle per tirare dritto in porta e far goal. Quello che ci sarà ad aspettarli, però, nel secondo tempo della partita è la grande incognita.

Nonostante l’accordo reso pubblico in cui i due partiti si impegnano ad approvare un pacchetto di riforme che andranno a controbilanciare gli effetti del taglio degli eletti, dalla legge elettorale ai collegi regionali per l’elezione del Senato, le garanzie sul tavolo sul rispetto della road map condivisa sono ben poche. E la paura è che, alla fine, si sia firmata una “cambiale in bianco”.

All’uscita dall’aula a parlare sono i visi tirati dei Dem. In tanti, tra i deputati Pd, ammettono di non essere contenti di come sono state condotte le trattative con i grillini, soprattutto per le scarse garanzie fornite. «Siamo in ansia», confessa qualche deputato. «In pratica, ci dobbiamo fidare». Anche perché la narrazione anticasta, con tanto di forbici e applausi, proprio non gli va giù. Anche sui toni comunicazione in tanti avrebbero preferito un accordo di governo. Ma quello che si fa, tra i Dem, è anche un mea culpa. Perché se le garanzie nella trattativa sono mancate non è per abilità politica dei Cinque stelle quanto per la debolezza del Pd. Il partito non è stato in grado di impegnare i Cinque stelle su un testo di legge elettorale, semplicemente perché non c’è una linea unica sulla direzione da prendere. I Dem, di fatto, ancora non sanno qual è la legge elettorale che vogliono. «Il problema sta più nel partito che fuori», ammettono.

Dopo l’uscita di Matteo Renzi, anche i Dem proporzionalisti più convinti come Dario Franceschini sono in crisi. Una legge elettorale proporzionale sarebbe linfa vitale per Italia Viva, che a quel punto potrebbe cominciare a far traballare il governo per andare al voto. Ecco perché, nelle trattative con i Cinque Stelle, il Pd è arrivato senza una proposta netta, e l’accordo di fatto si regge sul nulla. Da qui la preoccupazione del dopo, con Piero Fassino che in aula ha richiamato i grillini alla lealtà politica. «Quella lealtà con cui io voto oggi comporta la stessa lealtà sulle altre riforme dell’accordo di maggioranza»: è questo il ragionamento.

Nelle dichiarazioni di voto, tutti nella maggioranza hanno criticato il taglio dei parlamentari, sostenendo che non servirà certo a ridurre il costo della politica («dopo questo voto gli italiani potranno permettersi un caffè in più all’anno», calcolano), finendo poi però per annunciare di votare a favore. Ma «a patto che», «a condizione che». Delrio pone la questione della revisione del bicameralismo perfetto. C’è chi parla di un cambio necessario dei regolamenti parlamentari. Roberto Giachetti, di Italia Viva, arriva ad annunciare il suo voto favorevole «per lealtà» verso il governo, aggiungendo subito dopo che si adopererà «per lo svolgimento del referendum (confermativo, ndr) e sarò il primo a costituire un comitato per il ‘no’ alla riforma». Dunque, ha detto, «voterò a favore ma non convintamente», lanciando pure una frecciata al Pd. «Una pseudoriforma», la definisce Giachetti, che si fa «per avere uno scalpo da offrire agli istinti peggiori, è il tributo che una certa presunta classe dirigente rende all’antipolitica». Alla fine, la sensazione è che non piaccia a nessuno, ma che al populismo nessuno riesca a rinunciare.

Qualche minuto prima del voto, in aula arriva anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il governo è al gran completo tra i banchi. Ma i due principali azionisti della maggioranza si guardano in cagnesco. Vittorio Sgarbi, dopo una dichiarazione show, che ha strappato i sorrisi di tutti, lo dice senza mezzi termini: «Se ci fosse il voto segreto, qui il risultato sarebbe ribaltato».

E l’unica cosa che nel Pd si augurano ora è di ottenere subito lo stop al “referendum Fraccaro”, che prevede la revisione dell’articolo 71 della Costituzione e l’introduzione del referendum propositivo, in cui una parte del corpo elettorale può approvare direttamente una proposta di legge “sostituendosi” al Parlamento. L’apoteosi della democrazia diretta grillina e della lotta alla casta, che il Pd – almeno questa – dovrebbe riuscire a fermare. Con il rischio, altrimenti, di finire per suicidarsi del tutto, cadendo definitivamente nelle fauci della demagogia grillina.

Anche perché degli altri accordi sotterranei paventati dalla Lega, con lo scambio tra il taglio dei parlamentari e l’approvazione dello ius culturae, pare non esserci traccia. C’è chi dice che è perché la segreteria Zingaretti non gestisce i dossier negoziando su temi di aree diverse, senza mischiare le mele con le pere per intenderci. Ma la verità, anche qui, è che pure su temi che dovrebbero essere identitari come lo ius culturae il partito non ha ancora trovato la quadra. A parte la sinistra sinistra del partito, in pochi hanno voglia di accelerare su un tema considerato a rischio per il consenso elettorale. E se non lo fa il Pd, figurarsi i Cinque Stelle che fino a qualche mese fa governavano con la Lega.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/10/09/taglio-parlamentari-pd-cinque-stelle/43868/

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