Ci vuole un fisico bestiale a sostenere che quella di Giuseppe Conte è una «forza tranquilla». La debolezza dell’ultima perorazione a Palazzo Chigi è stata evidente, e all’annuncio degli immaginifici “Stati generali dell’economia” è seguito il silenzio generale e il vuoto di idee sull’avvenimento.
Non c’è ancora niente. Tranne il fatto che il lavorone del dottor Colao è stato stampato e riposto da qualche parte come si fa con i quaderni di scuola a fine anno, magari torneranno utili alla ripresa della scuola.
No, quella di Conte non è una “forza” e non è nemmeno “tranquilla”. Il Fatto ormai si è ubriacato della sua stessa propaganda, distillato di Pravda e Mario Appelius, il giornalista esaltatore del regime mussoliniano (“Dio stramaledica gli inglesi” venne attribuita al Duce ma era sua), e ieri ha osato paragonare il “programma” dell’avvocato del popolo al progetto di François Mitterrand che il famoso pubblicitario Jacques Séguela sintetizzò, appunto, col celebre slogan «La force tranquille», formula vincente alle presidenziali del 1981.
Ma quello era un progetto di modernizzazione di una Francia anchilosata da anni di gollismo e ansiosa di sciogliere qualche briglia, in campo economico, sociale, del costume, della cultura. Il mitterrandismo fu percepito come un’iniezione di novità, pur rispettosa della grandeur e anzi strumento per rinverdire certi fasti del passato: tanto è vero che il primo presidente socialista divenne infatti le Roi in era repubblicana.
Cosa c’entra Giuseppi con tutto questo è un mistero che solo la fervida fantasia del Fatto, attraverso la penna dell’ex supercomunista Salvatore Cannavò, già cantore di Porto Alegre e di misteriose coalizioni sociali landiniane, può inventare. E non basta: per l’ex deputato di Rifondazione comunista che odiava Romano Prodi e Massimo D’Alema invece Conte «si posiziona all’incrocio dei vari riformismi italiani: liberale, socialista, cattolico e di una parte dell’ex Pci».
Una meravigliosa sintesi di Luigi Einaudi, Riccardo Lombardi, Carlo Donat Cattin e Giorgio Amendola. La verità ovviamente è tutt’altra.
Conte infatti non ha mai esposto un congruente programma riformatore, meno che mai socialdemocratico, ma ha di volta in volta affastellato elementi diversi in una maionese che ha finito con l’impazzire, dal sapore né dolce né amaro – come la China Martini pubblicizzata tanti anni fa da Ugo Tognazzi – di modo che ciascuno può pescarci qualcosa di appetibile, salvo poi rendersi conto alla fine di che razza di pasticcio ha ingurgitato.
Conte non sembra in questa fase 3 l’uomo delle grandi scelte, capace di dire dei sì ma anche dei no, piuttosto il suo metodo tardo-democristiano ricorda l’Eduardo di “Ditegli sempre di sì”, commedia comica nella quale si affaccia l’inquietante domanda finale su quale sia la vera verità: proprio come ascolti l’ultima perorazione a Palazzo Chigi, ti resta il dubbio su cosa abbia detto veramente.
C’era tutto nel piuttosto mesto “discorso della vittoria” dell’altro giorno. E se c’era tutto, era come se non ci fosse niente. Finanziamenti subito, autostrade ovunque (ma che dicono i grillini?), meno burocrazia, più turismo, più giustizia, nuove regole, più mercato, più Stato.
Un’Italia da sogno che è lì in attesa solo di essere acchiappata, un luna park per grandi e piccini che Chigi, come i giovani cronisti chiamano ora la stanza dei bottoni, sta allestendo puntando molto sulla spremitura delle “menti brillanti” che si compirà negli “Stati generali dell’economia”, questa specie di Woodstock di chiacchiere con governo, sindacati, opposizione, imprese e chi più ne ha più ne metta. Un festival buono per l’immagine di un premier in versione padre di famiglia che raduna tutti in vista del Piano di Rinascita che stavolta non verrà elaborato nei saloni di Castiglion Fibocchi ma in quello della residenza governativa di Villa Pamphili.
La probabile sfilata di cahiers des doléances – dateci più soldi, diranno tutti – davanti a un premier che si presenta con pagine bianche, c’è da sperare, con l’ottimismo della volontà, che non sarà una passerella propagandistica. Anche se il pessimismo della ragione dice che Conte non ha grandi idee e soprattutto non ha ancora una forza politica sua né una coalizione pronta ad “andare all’attacco”, come si è espresso Roberto Gualtieri, l’uomo su cui puntano le forze-chiave dell’economia, a partire dal multiforme mondo delle imprese, già stanche di Conte.
Servirebbe forse gente nuova, se “rimpasto” non fosse una brutta parola, lo ha detto uno che si rende conto della situazione come Goffredo Bettini che ciò che è si è visto finora non basta più. Una conferma autorevole che Giuseppe Conte al contrario di François Mitterrand è debole. E per nulla tranquillo.
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