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Stefano Bonaccini, un attaccante che gioca in difesa (e che se vince vince da solo)

Stefano Bonaccini ha mentito. Domenica, alle elezioni regionali, non è in gioco solo l’Emilia Romagna: è in gioco il passo del governo, la stabilità di Nicola Zingaretti, il destino del Partito democratico, il peso di una storia. È una bugia innocente. È la linea che Bonaccini ha scelto per tentare di vincere la guerra asimmetrica contro Matteo Salvini (quella con Lucia Borgonzoni – tutti lo sanno – è una partita diversa). La battaglia è impari. Da una parte, c’è il capo della Lega, il leader che può cambiare il volto all’Europa, secondo il Time, che lo mise in copertina. Dall’altra, c’è il presidente della Regione Emilia Romagna, il buon amministratore locale. Di qui, il politico che ha la macchina social-politica più potente dell’Unione Europea (4 milioni di fan su Facebook), di là un peso piuma del ring social (meno di 115 mila). A destra, la potenza mobilitante di un’ideologia. A sinistra, la crisi d’identità.

Stefano Bonaccini ha difeso strenuamente i confini della contesa, rannicchiandola dentro l’Emilia Romagna: ospedali pubblici, riduzione dell’attesa nei pronto soccorso, piano casa, metro leggera, trasporti gratis per gli studenti, investimenti verdi. Matteo Salvini, invece, ha buttato giù i muri: ha fatto entrare dentro la campagna elettorale emiliana il processo per il blocco della nave Gregoretti, dunque il governo dell’immigrazione; il caso di Bibbiano, e perciò l’ideologia della famiglia tradizionale minacciata dai cattivoni del gender; poi, il citofono e la caccia allo spacciatore straniero, un modo spregiudicato di cogliere lo spavento che il mondo nuovo suscita nelle persone. Soprattutto, le più indifese. «In questa regione, Salvini è un ospite. Per me, invece, l’Emilia Romagna è casa», ha detto Stefano Bonaccini, contrapponendo al sovranismo del prima gli italiani, un paradossale sovranismo emiliano. «Bonaccini – dice a Linkiesta Marco Valbruzzi, ricercatore dell’Istituto Cattaneo – ha puntato tutte le sue carte sull’elezione del sindaco dell’Emilia-Romagna. Fino all’ultimo, si è rifiutato di lasciar intendere che il voto avesse anche solo un retrogusto nazionale». Lunedì notte, sapremo se ha sbagliato la scommessa. Oppure, se c’ha preso. Di certo, non finirà in parità.

Stefano Bonaccini ha 53 anni. È entrato nella Federazione dei giovani comunisti sul finire degli anni Ottanta e, all’inizio dei Novanta, è diventato assessore a Campogalliano, il paese in cui è nato. Poi, segretario del Pds di Modena e, più tardi, assessore della stessa città. Infine, capo del partito democratico in Emilia Romagna e presidente della Regione, cinque anni più tardi (2014). Ogni ascesa nel partito (democratico di sinistra e derivati), ha corrisposto a un passo avanti nelle istituzioni. Giacché, in Emilia, le due cose si tengono strette. O meglio: si sono tenute strette fino a ora. Per Bonaccini, questa è la prima, vera corsa fuori dalla comfort zone in cui è cresciuto, quella del modello emiliano, in cui il conflitto politico si lenisce nella mediazione dei corpi intermedi, nelle oleate pratiche di consociazione, che impediscono di arrivare fino al punto di rottura dell’alternativa: o noi o loro, o io o tu.

Già nel 2004, in Quel gran pezzo dell’Emilia, Edmondo Berselli scriveva: «La verità è che l’Emilia, con i suoi annessi e connessi, è stata un modello politico e sociale, e oggi, finita quella politica là, potrebbe essere ancora un modello psicologico». In ballo, infatti, non c’è più una roccaforte politica, ma un presidio dell’immaginario, una cittadella psico-politica. L’Emilia come provincia dell’Unione Sovietica – di cui parlavano Lindo Ferretti e Massimo Zamboni – ha lasciato il posto all’Emilia paranoica che raccontavano in un’altra canzone della loro band, i CCCP – o, più precisamente, alla paranoia per la perdita dell’Emilia che angoscia tutta la sinistra. «La sub-cultura rossa, che teneva insieme il blocco elettorale del partito comunista e poi del centrosinistra, si è molto affievolita», racconta a Linkiesta Salvatore Vassallo, politologo dell’università di Bologna. «Le nuove generazioni non si sentono più legate a quella rete di relazioni. L’elettorato emiliano-romagnolo tende sempre di più ad assomigliare all’elettorato delle altre regioni del nord Italia, molto più sensibili al tema chiave del salvinismo, che è l’immigrazione».

Il suono della campana che annunciò la fine delle certezze emiliane Stefano Bonaccini l’ha sentito il 23 novembre del 2014, il giorno in cui è stato eletto alla presidenza dell’Emilia Romagna. A votare, andò il 37,67 per cento degli aventi diritto, la metà delle persone che erano andate a votare la volta precedente. Pochissimi, considerati gli standard della regione. Certo, c’era stato lo scandalo delle spese pazze. Che, addirittura, portò Vasco Errani a dimettersi anticipatamente (poi, tutto si sgonfiò nei tribunali). Stefano Bonaccini, che sentì su di sé il dolore del colpo, parlò di uno «schiaffo» che gli elettori avevano dato al Partito democratico, al centro-sinistra, al governo allora guidato da Matteo Renzi.

Lo disse ai cronisti che lo attendevano fuori dal comitato elettorale, alla fine della giornata. Bonaccini era sfinito. Ma non è quello che colpisce di quelle immagini: è che non lo si riconosce più. Senza la barba, senza gli occhiali a goccia. Dieci chili in più. Non è lo stesso Bonaccini che vediamo oggi. Quello che assomiglia al Mario Brega di Un sacco bello di Carlo Verdone, che dice: «So’ comunista così». Solo che lui è parecchio più alla moda. Molto più prestante. Assai più energico. È come se nello spazio di tempo passato da quella notte vittoriosa, però traumatica, a oggi, Bonaccini sia venuto fuori. Tipo le statue che rimangono sepolte nel marmo fino a quando non arriva uno scultore che le sa tirar via di lì, togliendo tutto ciò che non serve, il superfluo.

«Con un voto del genere – disse – dovrò triplicare gli sforzi per ricostruire un filo con chi non è andato a votare». Così ha provato a fare. Girando in lungo e in largo l’Emilia Romagna. In ogni città, ogni quartiere, ogni paese. In questo, uguale a Salvini. Ma con lo svantaggio di dover andare contro il verso in cui va l’umore della gente. A Goro, alla fine di un comizio, un pescatore ha alzato la voce contro di lui. Gli ha detto che la mattina si sveglia alle sei. Si guadagna il pane andando in mare ed è stufo dei fenomeni della politica. Bonaccini ha scansato i suoi, che volevano portarlo via di lì, e lo ha affrontato muso a muso. La scena l’ha ripresa Elena Testi per Tagadà. «Lei c’è bisogno che impari l’educazione. Fermo, mi lasci parlare. Mi lasci parlare. Io vengo da una famiglia… papà è camionista, mamma orfana di entrambi i genitori, da bambina è dovuta emigrare per sopravvivere. Io vengo da una famiglia molto umile. Lei a me non mi insegna cosa significa lavorare. Perché io lavoro quattordici ore al giorno. Comprese le domeniche. Chiaro?».

Il padre e la madre di Bonaccini, ma soprattutto la madre, fin da bambino lo portavano alle feste dell’Unità. Lì Bonaccini ha incontrato i movimenti per la pace, durante la prima guerra nell’ex Jugoslavia e dell’Iraq, ai chioschi dell’Arci. Poi, è arrivato il partito. Nel momento più tormentato della sua storia. Quando il muro di Berlino è caduto e il comunismo italiano è andato in crisi. L’assessore del comune di Campogalliano, Luisa Zaccarelli, che conosce Bonaccini fin da ragazzo, racconta a Linkiesta che quando si trattò di decidere il cambio del nome del Pci, la federazione dei giovani comunisti andò in ritiro a Zocca, dove vive Vasco Rossi. Un giovanissimo Gianni Cuperlo illustrò la linea del segretario, Achille Occhetto. E, nella divisione in favorevoli e contrari, Bonaccini era tra quelli più inclini alla svolta. «Senza il gesto coraggioso di Occhetto – disse vent’anni dopo la Bolognina – il Partito democratico non esisterebbe». Detto quando il nome di Occhetto era meglio non pronunciarlo troppo ad alta voce.

La tradizione e il tradimento viaggiano sullo stesso binario. Le due parole condividono l’etimologia. Vengono entrambe dal verbo latino tradere, che significa consegnare. Giuda consegna Cristo ai romani e al cristianesimo. Occhetto consegna il comunismo italiano alla storia e la storia del comunismo ai suoi successori. Bonaccini, dopo la “non vittoria” di Bersani nel 2013, pur essendo stato eletto insieme a lui segretario del Partito democratico dell’Emilia Romagna, passa con Matteo Renzi. Diventa coordinatore della sua campagna per le primarie. Il primo dei grandi emiliani ex comunisti che lo segue. Gli uni lo accusano di aver tradito la sua storia. Gli altri di essere uno che è saltato sul carro del vincitore. Accetta la guida degli enti locali che gli dà Renzi dicendo: «Io faccio quello che mi chiede il partito». Frase da manuale del comunismo italiano. Quello per cui il partito è il nuovo Principe, definizione di Antonio Gramsci. Dunque, viene prima di tutto. Anche dell’io.

Bonaccini si trova oggi sulle spalle la responsabilità di custodire una storia lunga più di mezzo secolo, ma ha scelto di farlo puntando solo su se stesso. I suoi manifesti elettorali, il suo sito internet, la sua immagine non hanno i simboli della ditta. Colore verde. Camicia bianca. Hashtag: #unpassoavanti. Vissuta come un punto debole. Un fianco scoperto. Tanto che Pierluigi Bersani ha detto: «In questi giorni, giro per l’Emilia Romagna e dico: oltre al sacrosanto buongoverno, mettiamoci cuore, il senso della nostra storia». Lui, Bonaccini, che al cuore si è operato quando aveva 9 anni, per un’aritmia che si porterà dietro tutta la vita, crede che l’unico modo per combattere l’avanzata della destra in Emilia Romagna sia puntare sulla ragione, non sul sentimento. Problema, soluzione. Problema, soluzione. Senza troppi discorsi.

Il cuore ce l’hanno messo le sardine, più che altro. «Hanno ri-vitalizzato l’elettorato del centrosinistra. Dando una mossa anche a chi fa campagna politica tradizionale», dice a Linkiesta Bruno Simili, vice direttore della rivista del Mulino. «Nell’ultimo mese e mezzo di campagna elettorale, c’era uno spazio vuoto, che i partiti del centrosinistra non riuscivano a presidiare ed è stato occupato da loro. Ma che poi quelle presenze in piazza si trasformino in valanghe di voti per Bonaccini, è tutto da vedere». Secondo Filippo Barbera, professore di sociologia economica all’Università di Torino, dal 2014, la Lega è cresciuta «nelle zone dell’Appennino, soprattutto nelle province di Parma e Piacenza, le aree meno densamente abitate della Regione e quelle più lontane dai poli di offerta dei servizi». Sono i territori più frequentati da Matteo Salvini. Quelle in cui, secondo alcuni sondaggisti, non ci sarebbe partita.

L’anatomia dell’avanzata leghista Stefano Bonaccini l’ha studiata a fondo. Nel suo staff, c’è Stefano Aurighi, uno degli autori del documentario Occupiamo l’Emilia, un viaggio inchiesta sulla penetrazione della Lega. Bonaccini è andato in lungo e in largo a presentarlo per l’Emilia Romagna e, una volta, disse: «Bisogna sfatare il mito del radicamento della Lega. Ci sono comuni in cui ha preso molti voti senza fare volantinaggio e senza sede di partito». È lì che Stefano Bonaccini è andato, piazza per piazza, casa per casa, a cercare di fermare il contagio. Contrapponendo al verbo salviniano, la parola delle delibere, degli stanziamenti messi neri su bianco, dei progetti firmati. In una performance di iperattivismo che dà il tratto dell’amministratore che si spende per gli altri. Rassicurante e paterno. Quello che incontri e ti ispira fiducia. Come succedeva ai genitori delle giovani comuniste della federazioni modenese, che mandavano le figlie alle feste perché sapevano che tanto “c’era Stefano”.

Funzionerà? È quello che si chiedono tutti. È quello che si chiede anche lui. Lui, che a calcio giocava all’attacco (è arrivato fino in promozione), e in questa campagna elettorale ha giocato in difesa del lavoro che ha fatto, ma pressando alto negli spazi lasciati vuoti dal ripiegamento propria squadra. Basterà? È quello che si augura Giuseppe Conte, il presidente del consiglio. E, insieme a lui, tutto il governo. È quello che spera Nicola Zingaretti, alla cui filiera Bonaccini è sempre stato associato, entrambi appartenenti all’ultima nidiata dei giovani comunisti italiani: una specie umana particolare. Di certo, è vero il contrario di quel che solitamente succede. Se perderà, Bonaccini non perderà da solo. Se vincerà, invece, sì, vincerà solo. E, a quel punto, qualcuno fuori dall’Emilia Romagna gli chiederà: «Che vuoi fare da grande?». A proposito della bugia del voto locale.

https://www.linkiesta.it/it/article/2020/01/25/stefano-bonaccini-emilia-elezioni/45177/

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