Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, un ex segretario di un grande partito di (centro) sinistra, stufo del caos che si stava creando attorno al suo nuovo partito da parte di un comico molto popolare (e molto discusso sotto molti punti di vista) che aveva iniziato a parlare di politica e acceso i riflettori, sfruttando la sua enorme platea, su temi come l’ambiente e i beni comuni, la tutela dei consumatori e il bisogno di farsi trovare pronti per “la fine del lavoro”, iniziando così a intaccare la granitica convinzione di tutto il popolo che non si riconosceva in Silvio Berlusconi di non avere nessuna alternativa rispetto al Partito Maggiore, ebbe a dire che se quel comico — che come massima provocazione aveva detto di voler correre alle Primarie per l’elezione del segretario del nuovo partito — avesse voluto fare politica seriamente, avrebbe dovuto farsi un partito da solo per vedere quanti voti sarebbe stato in grado di prendere.
La storia, poi, sapete benissimo com’è andata. L’infausta profezia di Piero Fassino è diventata ormai il caso scuola per raccontare la miopia di certa politica rispetto alle novità che si presentano nello scenario del dibattito. Una miopia che, al netto dei giudizi di valore che chiunque è in grado di farsi, ha fatto ben più di un danno al Partito Democratico. Soprattutto perché dall’altra parte c’era un Beppe Grillo in rampa di lancio, pronto a farsi portavoce (o meglio, ariete) della creatura immaginata da Gianroberto Casaleggio: il Movimento 5 Stelle.
Oggi Giuseppe Conte dovrebbe ricevere per la seconda volta l’incarico da Sergio Mattarella di formare il nuovo Governo. Un Governo retto da un Partito Democratico che — dopo diversi capitoli più o meno fortunati — somiglia di nuovo a un corpo socialdemocratico, Liberi e Uguali (tra le cui fila troviamo quel Pier Luigi Bersani nel 2009 apertamente sfidato da Grillo e nel 2013 altrettanto apertamente umiliato con le consultazioni in streaming) e un Movimento 5 Stelle che ormai non somiglia più a quella strana entità dai confini non definiti, nata dal matrimonio di convenienza tra un imprenditore consapevole delle potenzialità della rete e della rabbia repressa di un popolo in cerca di un capo e di un comico che ben si è prestato a diventare il fool della tradizione folkloristica, colui il quale durante il carnevale si prende la responsabilità di irridere il sovrano dichiarandone la nudità e candidandosi a guida di quel popolo, di quella “gente”. È il mondo alla rovescia.
Dal 2009 al 2019 sono passati ormai dieci anni, il Movimento ha perso tutta la sua ingenuità: ha dimostrato di essere un partito vero e proprio, è stato al centro di scandali indagati in lungo e in largo da chi si è interessato a coglierne e metterne in luce oscurità e contraddizioni (dai pentiti fuoriusciti Marco Canestrari e Nicola Biondo, al giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni), ha governato con l’estrema destra di Matteo Salvini dopo che in Europa ha fatto parte del gruppo parlamentare di Nigel Farage, ha perso sempre più le sue stille progressiste e ha esaurito la rabbia per trasformala in rancore. Ma oggi arriva la contraddizione definitiva: il governo con il Pd. Proprio lui, il nemico di sempre. Quello che oggi è il “partito di Bibbiano” e che in passato è stato sempre oggetto di critiche feroci da Grillo all’ultimo militante. Dal “pd-meno-elle” con cui si mettevano in risalto le derive compromettenti di un partito deciso a governare con la destra sotto l’egida di Mario Monti in poi, oggi il mondo fa la sua ultima capovolta e fa governare il Movimento con il partito che dalla sua nascita in poi si è occupato di hackerare. Si perché forse non ve lo ricordate, ma c’è stato un momento in cui il Movimento 5 Stelle poteva davvero essere considerato l’ennesima “costola della sinistra” di dalemiana memoria (solo che ai tempi il leader maximo parlava — ehm — della Lega).
Dai referendum per l’acqua pubblica ai movimenti per l’ambiente. Dai flash mob contro la corruzione alla raccolta firma dei piccoli azionisti Telecom per farsi tutelare da Grillo in sede di CdA. Dalla lotta contro la corruzione e la mafia alla scelta dei “santini” da mostrare a ogni occasione per definire l’orientamento: Milena Gabanelli, Gino Strada, Stefano Rodotà, Antonio Di Pietro. La capacità di parlare di innovazione e farsi ascoltare da un pubblico sempre più ampio (insieme a cantonate come la bio-washball, il reddito di cittadinanza nasce qui, con l’idea della “fine del lavoro”), le lotte locale agli abusi edilizi, agli ecomostri e per la tutela del territorio sfociate nella simbolica battaglia contro la Tav in Valsusa (che adesso paradossalmente sono costretti a subire), la trasparenza come antidoto a una politica chiusa e misteriosa, privata e colpevole per definizione. Il “popolo” che si coagula attorno a Beppe Grillo e esplode nella rabbia a modo suo “creativa” del V-Day di Bologna del 2007 sull’onda della proposta di legge popolare per un Parlamento Pulito, è un popolo stanco e stufo che però si riconosce in qualche modo nei valori “storici” della sinistra: la difesa della persona e della sua dignità, il rispetto per l’ambiente, la lotta al malaffare. Il tutto detto con un vocabolario nuovo, barbaro, una “volgare eloquenza” che riportava il lessico alla portata di tutti dentro il dibattito politico. L’irruzione di quello che poi avremmo imparato a riconoscere come “populismo”.
La storia avrebbe potuto prendere una piega diversa se, nel 2009, il Partito Democratico avesse accettato la candidatura alla segreteria di Beppe Grillo. Immaginate cosa avrebbe voluto dire per lui sfidare la nomenklatura nata dal meglio delle culture politiche del Novecento: comunisti da un lato, democristiani dall’altro. Avrebbe potuto vincere, per poi essere rimasto “incatenato” dai veti incrociati, dalla dialettica interna e dai riti della politica che hanno dimostrato essere più forti dei leader (chiedere a Matteo Renzi e Matteo Salvini); ma avrebbe anche potuto essere sconfitto mettendo così fine a quella che, per reazione del Gran Rifiuto, di lì a breve sarebbe diventata la parabola più di successo della storia politica (almeno fino all’exploit di Salvini, capace di prendere un partito al 4% e portarlo al 38%): un movimento di gente comune — ma orchestrata da un ufficio milanese da un imprenditore con un disegno ben chiaro in testa — che nasce sull’onda di battaglie giuste (le cinque stelle: acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia) e dopo varie sfide locali come amici di Beppe Grillo prima elegge il sindaco di una grande città (Federico Pizzarotti, Parma), poi diventa primo partito alle elezioni del 2013 prendendo quasi 9 milioni di voti.
La storia della “prima vita” del Movimento 5 Stelle è la storia del più grande e riuscito hacking della politica italiana. E la vittima è stata la sinistra. Certo, con una inconsapevole e miope complicità (il Governo Monti ha minato qualsiasi credibilità per il Pd di potersi dire “alternativi”) e mettendoci del suo per non farsi votare (un programma timidissimo, incapace di dire parole nette su temi fondamentali come il lavoro e i diritti, ad esempio). Ma la sinistra è stata la vittima designata su cui fondare il proprio primo, storico, consenso. Del resto tutte le analisi del 2013 lo confermano: è da lì che sono arrivati molti voti al Movimento. Un popolo che, dopo anni di “questione morale”, ha preferito votare chi quella questione la urlava più forte e si proponeva come nuovo piuttosto che la “solita minestra” che per di più aveva messo il pareggio di bilancio in Costituzione, firmato la discussa riforma Fornero delle pensioni e aperto la strada alla “sinistra dell’austerità” che forse avrebbe avuto buoni ufficio nelle cancellerie europee, ma nelle strade del paese perdeva sempre più mordente e capacità attrattiva. E infatti.
Quello che poi è successo lo sapete tutti. Il Movimento che voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno ha in realtà imparato sulla sua pelle cosa vuol dire fare politica. Le contraddizioni e la mancanza di cultura storica — tratti fondamentali di questa epoca di significanti vuoti e passioni tristi — hanno fatto sì che gli elementi più di conservazione e di reazione diventassero punti di contatto con l’estrema destra (del resto quando dici di essere “né di destra, né di sinistra” spesso vuol dire che sei di destra). Se nel 2013 votare Movimento 5 Stelle era in qualche modo un gesto ‘di rottura’, nel 2018 ha significato votare un partito che aveva sempre più rinunciato a quell’anima di sinistra per diventare sempre più conservatore e aderente al sistema, un partito di “tenuta”, buono per tutte le stagioni e pronto a governare con Matteo Salvini, che fa passare la sua misura più famosa (il reddito di cittadinanza) ma lo fa diventare una mancia non per tutti, ma solo per chi dimostra di meritarselo; oppure che sull’immigrazione prende una linea sempre più dura e vicina a quella della Lega; oppure che rinuncia al dialogo con le parti sociali dopo aver raccontato di voler partire dai diritti dei rider e dei lavoratori della cosiddetta sharing economy.
Le sliding doors della storia capitano molto di rado. La politica, però, sta dimostrando che tutto può realmente succedere. E se una settimana governavi con la Lega (senza rinnegare niente della tua azione di governo), la settimana dopo apri al Partito Democratico pur di non tornare a votare. Oggi nasce un governo “strano”, che mette quei due partiti davanti al fantasma di una storia che poteva essere e che invece non è stata. Saranno tempi interessanti e quasi sicuramente ne vedremo delle brutte, ma c’è stato un tempo in cui il Movimento 5 Stelle è stato un luogo accogliente per gli elettori di sinistra. Da oggi vedremo se quell’anima esiste ancora.
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/08/28/cinque-stelle-partito-democratico-sinistra-governo/43340/