Alla fine lo scandalo che investe il Csm è anche l’esito di riforme mancate e autoriforme inefficaci. Le prime, anche se non soprattutto, per le ansie revansciste della politica verso la magistratura; le seconde per la timidezza nell’affrontare nodi di fondo da parte dello stesso Consiglio. Dove a fallire sono stati i tentativi, a vario titolo, di arginare la deriva correntizia, incidendo sul sistema elettorale piuttosto che sui meccanismi di assegnazione degli incarichi di vertice. Così, la riforma del Csm ha rappresentato una delle grandi incompiute della passata legislatura, annunciata sì dal tandem Renzi-Orlando, mai però portata a termine, malgrado una commissione presieduta da Luigi Scotti (ex ministro e presidente del tribunale di Roma) avesse messo a punto un’articolata relazione.
Il riferimento è ancora la legge Castelli del 2002
Il punto di riferimento continua a essere la legge Castelli del 2002 con cui il Governo Berlusconi II modificò la legge elettorale, prevedendo l’elezione di 16 magistrati (2 di Cassazione, 4 pubblici ministeri e 10 giudici) con un sistema maggioritario però su base nazionale. Sistema messo a punto per consentire a tutti i magistrati in servizio di potersi candidare, anche senza essere designati dai gruppi associativi dell’Anm, riducendone la capacità di influenza nella fase elettorale e poi nel funzionamento del Consiglio. Alla prova dei fatti, però, e a distanza di 17 anni, l’eliminazione del voto proporzionale per liste contrapposte non ha condotto ai risultati attesi e, anzi, ha rafforzato il potere dei gruppi associativi di determinare l’esito elettorale. Decisivo, come doveva anche allora apparire evidente, era, ed è, la possibilità del candidato di fare campagna elettorale su tutto il territorio nazionale, cosa nei fatti impossibile senza un aggancio a qualche struttura associativa. Ovvio che allora di candidati indipendenti se ne siano visti pochi, eletti nessuno.Di qui allora la proposta Scotti, mai approdata peraltro in consiglio dei ministri, che accantonò espressamente il sorteggio, a favore di un meccanismo a 2 fasi: la prima di tipo maggioritario per collegi territoriali e la seconda proporzionale per collegio nazionale su liste concorrenti.
Il flop della «autoriforma» della categoria
Nella scorsa consiliatura molto si lavorò per quella che poi è passata sotto il titolo di «autoriforma». Leggasi, più nel dettaglio, Testo unico della dirigenza, approvato nel 2015, con i criteri sui quali modellare la nuova classe dirigente della magistratura. Un provvedimento tutto teso a rafforzare i margini di prevedibilità delle decisioni sui capi degli uffici giudiziari. Un set di regole oltretutto messo alla prova in una stagione nella quale, per effetto della decisione del Governo Renzi di abbassare l’età pensionabile dei magistrati, il Csm si è trovato a effettuare un numero di nomine senza precedenti (oltre 1.000 tra direttivi e semidirettivi). Ora, anche in questo caso, la prova dei fatti non ha dato risultati brillantissimi. Requisiti attitudinali più stringenti, tarati anche sulla dimensione dell’ufficio da guidare, valorizzando per quelli più piccoli il lavoro giudiziario e per quelli più grossi le capacità manageriali dei candidati, non sono serviti più di tanto a fare da argine alle tentazioni spartitorie delle correnti.
Tanto più se si tiene conto che gli interventi sull’ordinamento giudiziario, con la valutazione quadriennale di conferma per i vertici, hanno condotto a un esito positivo pressoché generalizzato. Quindi, un Csm che, almeno nelle forma, aveva scelto di ingabbiarsi in regole più vincolanti, non ha tuttavia legato le mani ai gruppi associativi. Tanto da lasciare gioco facile alle contestazioni di un Piercamillo Davigo che, un anno fa, in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio aveva censito 599 nomine su 832 (a marzo) effettuate all’unanimità. Plastico esempio della sopravvivenza delle logiche di spartizione che, portate in questi giorni al parossismo, hanno gettato il Csm nella sua stagione più buia.
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