Il problema non è l’Umbria. Fosse quello, saremmo a posto. Il problema, purtroppo, è molto più grave del cedimento strutturale dei consensi nella provincia di Terni o di Perugia. Il problema è globale.
Nelle stesse ore in cui la Lega nera di Matteo Salvini faceva il pieno dei voti, la destra nostalgica di Giorgia Meloni superava quel che resta di Forza Italia e la surreale alleanza tra populisti e antipopulisti si faceva i selfie a Narni, in Argentina i peronisti sono tornati al potere e in Turingia quelli che nel trentennale della caduta del Muro di Berlino rimpiangono la Repubblica democratica tedesca hanno consolidato la maggioranza mentre quelli che ancora si struggono a pensare al Terzo Reich hanno raggiunto il 24 per cento. È Umbria dappertutto, insomma. O Ungheria. O Polonia. O Brasile, Filippine, Messico. È tutta Umbria là fuori. C’è Londra che non sa uscire dal guaio in cui si è ficcata, c’è Madrid che continua a chiamare gli elettori alle urne senza risolvere nulla e c’è Roma nelle condizioni pietose in cui si trova. Per non parlare, poi, della Catalogna indipendentista o degli Stati Uniti con il presidente inevitabilmente sotto processo per tradimento o altre quisquilie, mentre gli agenti del caos internazionale, a cominciare dalla Russia di Putin, gongolano perché hanno trovato il modo di imbarazzare le democrazie parlamentari, anche grazie all’abuso di tecnologie occidentali che l’occidente ha lasciato libere di fare e di disfare, di creare e di distruggere, senza alcun controllo e senza alcuna regolamentazione.
Certo, ci sono lodevoli eccezioni all’Umbria globale: la Francia di Emmanuel Macron, un paese serio che al dunque serra le file e boicotta i fascisti, oppure la Milano operosa e solidale che per ora respinge Lega e Cinque stelle. Il punto però è che nessuno ha ancora trovato la formula per rispondere adeguatamente alla chiusura della mente occidentale e per ribattere agli attacchi dei nemici della società aperta. Non sono risposte credibili quelle di chi suggerisce di insistere come se niente fosse su globalizzazione, innovazione e automazione né quelle di chi immagina protezioni sociali inaudite e reddito di base universale.
L’alternativa che si fa strada è il modello autoritario russo e cinese, tanto caro proprio ai sovranisti, ai populisti e ai demagoghi, mentre gli immaginifici tentativi del Pd nostrano di combattere il populismo alleandovisi strategicamente non sembrano destinati ad avere successo oltre il collegio di Twitter.
E allora mettiamoci il cuore in pace, evitando la rassegnazione e ricordando che gli scorsi settant’anni di progresso e di sviluppo locale e globale sono stati possibili grazie a un sistema di alleanze e di accordi internazionali garantito dagli Stati Uniti, ma negli ultimi anni reso sdrucciolevole da Barack Obama, il quale si era convinto che fosse finito il tempo dell’America guardiana del pianeta e che fosse inesorabilmente arrivato il momento della gestione del declino a stelle e strisce. Il declino però non è un destino inesorabile, ma una precisa volontà politica, è disimpegno, sicché a furia di invocarlo è arrivato Donald Trump a promettere di far tornare grande l’America. Al di là di sue complicità con il Cremlino e altri palazzi analoghi, Trump ha puntato sul “prima gli americani”, la cui conseguenza diretta è basta aiuti, sostegni, assistenza agli alleati, siano essi europei o curdi, perché prima c’è da pensare agli americani, con ripercussioni notevoli sia per gli amici degli Stati Uniti sia per gli americani stessi che senza il geniale sistema di alleanze internazionali costruito nel dopoguerra contano di meno e subiscono gli effetti delle guerre commerciali sovraniste del presidente.
Oggi gli Stati Uniti della nostra storia non ci sono più, non sono più affidabili, tradiscono gli amici e flirtano con i nemici. Noi possiamo ancora contare sull’Europa che con tutti i suoi difetti riesce comunque a resistere alle bordate sovraniste e russe, ma c’è poco da fare: il riscatto antipopulista può ripartire soltanto da Washington.
Finché ci sarà Donald Trump alla Casa Bianca è inutile preoccuparsi per l’Umbria e per la Turingia, per la Brexit o per il disfacimento della Spagna: non ci sarà niente da fare, se non parare i colpi e provare a resistere. Bisognerà aspettare la caduta di Trump, via impeachment, via collegio elettorale o via vincolo costituzionale del doppio mandato, per sperare nel riequilibrio del sistema internazionale e nel ripristino dell’alleanza globale in difesa del mondo libero. Non è una visione pessimista. Al contrario, è ottimista perché crede sia impossibile che dopo Trump possa esserci un presidente altrettanto nazionalista, se non più di lui. Ma chissà.
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