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Un mese senza Di Battista? Ecco i tre motivi per cui non manca a nessuno (neanche ai 5 Stelle)

Non scrive più un post sui social da un mese esatto. Non è più in Guatemala, non è partito per l’India, ancora non l’hanno visto in Congo. E la sua ultima apparizione in tv è stata a Di Martedì, il 13 febbraio. Da quel momento Alessandro Di Battista è sparito dalla scena mediatica dopo aver promesso di fare la campagna elettorale per le elezioni europee da protagonista. Solo il 3 marzo qualcuno l’ha visto in una moschea di Istanbul, da solo. La notizia non è la sua scomparsa mediatica, ma il dato politico: nessuno dei 5 stelle, da Luigi Di Maio all’ultimo attivista, sente la sua mancanza o invoca la sua presenza. Perché quello che doveva essere il ritorno trionfale della “risorsa” del Movimento, si è rivelato il peggiore dei boomerang. E per capirlo non servono retroscena fantasiosi, bastano i dati. Terzi in Abruzzo, terzi in Sardegna e in calo nei sondaggi. Il Movimento Cinque Stelle ha perso un voto su 3 (ora è al 22,7%) e la colpa sembra del suo giocatore migliore: un talento politico incontrollabile e divisivo.

In una situazione normale Di Battista avrebbe la libertà di fare ciò che vuole. Potrebbe infischiarsene dei social o ignorare i giornalisti che si chiedono dov’è e cosa fa. Ma nei primi due mesi dell’anno lui e Luigi Di Maio hanno martellato i salotti televisivi per raccontare il ritorno dell’asso nella manica dei 5 stelle che avrebbe dovuto rianimare il Movimento in crisi di identità e consensi dopo l’alleanza con la Lega. E nei sette mesi precedenti, da quando è partito con moglie e figlio per il Centroamerica, sono stati gli attivisti a tesserne le lodi politiche annunciando ogni settimana la venuta del loro salvatore. Un “Addà venì baffone” invocato ogni volta che il Movimento per gaffe o scelte politiche contraddittorie dava l’idea di perdere identità e consenso. Così si è creata l’immagine del Di Battista fenomeno politico che forte della sua rinuncia alla poltrona avrebbe fustigato l’opposizione e ridimensionato Matteo Salvini.

Con un’aspettativa forse più alta dei suoi pur buoni meriti oratori, Di Battista ha affrontato come meglio poteva il ritorno in televisione. Da quando è tornato verso fine dicembre è apparso dappertutto. La routine è sempre quella, ben rodata, eseguita con il pilota automatico con la stessa naturalezza davanti all’Annunziata su Rai Tre o a Barbara D’Urso su Canale 5. Primo: umanizzare i colleghi di governo, dipingendoli come giovani boyscout con un sogno da realizzare: «Fa un certo effetto vedere Luigi ministro e Roberto presidente della Camera. Fino a pochi anni fa erano dei semplici cittadini con il sogno di cambiare l’Italia e oggi lo stanno facendo». Poi la retorica dei risultati raggiunti nonostante le gaffe dei colleghi “gonfiate” dagli sporchi, brutti e cattivi mass media: «Ogni tanto facciamo qualche gaffe comunicativa, penso a Danilo massacrato per aver sbagliato una foto o una consecutio temporum, e poche settimane fa ha bloccato l’aumento dei pedaggi al 90% delle reti autostradali. Danilo deve andare avanti perché è il miglior ministro che abbiamo insieme a Luigi Di Maio». Senza contare il rivendicare in ogni occasione l’essere un semplice cittadino, un battitore libero di fustigare chiunque e credibile perché ha rinunciato alla poltrona in nome della libertà: «Io non mi ci vedo ad avere accanto a me i bodyguard anche quando prendo una pizza, ho bisogno di respirare». Ma l’oratoria non è più quella di un tempo. «La tv richiede molto impegno e molto allenamento, se tu per sette mesi scompari dai radar, non sei bravo come eri un anno prima» ha commentato Andrea Scanzi. E se l’ha notato pure un giornalista che si dichiara vicino a Di Battista, non c’è complotto che tenga. Il ritorno di Di Battista è stato un flop per tre motivi.

Primo: l’ansia di imporre ogni giorno un tema all’opinione pubblica l’ha logorato. Dalla banconota del Franco Cfa mostrata a Fazio a Che tempo che fa, alle accuse di infiltrazioni di ndrangheta sulla Tav (per questa accusa è stato querelato), fino a dichiarazioni sul governo venenzuelano, Di Battista ha aperto ogni giorno un nuovo fronte. Ha guadagnato titoli di giornale ma ha perso in efficacia. Troppi temi, tutti insieme, hanno ingolfato il dibattito e creato problemi ai suoi colleghi del Movimento, compreso Di Maio, trascinato in avventure mediatiche autolesioniste come la guerra alla Francia culminata con l’incontro con gli esponenti estremisti dei gilet gialli. Errori politici a cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dovuto sempre mettere una pezza e che non hanno portato più consenso, ma solo confusione. Lo stesso Di Battista non è riuscito a stare dietro a tutte le accuse generiche fatte contro i soliti poteri forti. Ottima strategia quando si è all’opposizione per indebolire il lavoro della maggioranza, deleteria quando si è al Governo e bisogna rendere conto della verdiicità delle affermazioni tipo: «Danilo è stato massacrato dal sistema mediatico e secondo me, non ho le prove, ci sta la mano dei Benetton dietro».

Il secondo errore è stato fare coppia mediatica con Luigi Di Maio. Che sia vera o no l’amicizia tra Di Battista e Di Maio non importa, semplicemente non funziona. Dentro un’utilitaria in direzione Strasburgo, alla stazione di Pescara cercando un treno che porti in meno di 3 ore e mezza a Roma o sugli sci in attesa di prendere il bombardino, la coppia è male assortita. Di Maio è stato schiacciato dalla personalità (e fisicità, un aspetto da non sottovalutare visto che in politica la forma è sostanza) del collega che l’ha fatto sembra un nano fisico e politico, diminuendone la leadership. Viceversa Di Battista ha bisogno di essere solo sul palcoscenico, di sbracciarsi, di urlare. In ogni video della coppia si è notato il disagio a dover stare in silenzio, con lo sguardo vitreo a sentire l’intemerata del collega. I due sono superbi monologhisti che hanno bisogno dei loro tempi e modi per essere efficaci. Si è percepito il disagio nei dialoghi forzati tra i due, un copione per dimostrare a tutti la loro amicizia. Saranno pure amici ma la scena è troppo piccola per tutti e due. Pur essendo un partito di rottura rispetto al passato il Movimento Cinque Stelle è come Casa Savoia, si regna uno alla volta.

Terzo e più importante. Di Battista ha scelto il nemico sbagliato. «Se Salvini vuole la Tav torni da Berlusconi e non rompa i coglioni!» aveva detto Di Battista risollevando l’animo di molti attivisti infastiditi dallo strapotere del ministro dell’Interno nella coalizione. E dire che l’intenzione era giusta: insistere sulla contraddizione di Salvini, in politica dal 1993 e presentatosi con Berlusconi alle elezioni, visto come l’uomo nuovo grazie alla novità 5 Stelle per indebolirlo e fermare la sua ascesa. Di Battista ha creato la sua fortuna politica indossando i panni del moralizzatore che riportava all’ordine il Partito democratico corrotto e sottolineava i mali della classe politica. Ma la retorica del chierichetto non ha funzionato con Salvini, percepito come nuovo e affidabile e non ancora logorato da cinque anni di governo e dagli scandali giudiziari. Il ministro dell’Interno ha scelto la tecnica migliore: non rispondergli o farlo ironicamente: «A Di Battista mando pane e nutella». Ignorandolo andando avanti per la sua strada e in poche occasioni delegittimandolo, l’ha disinnescato. Una mano a Salvini l’ha data anche il Movimento votando contro l’autorizzazione a procedere sul caso Diciotti. E così Di Battista, rimasto solo nella battaglia, con l’arma spuntata dopo il voto del blog, non è riuscito a indebolire l’alleato di governo, l’unico vero obiettivo mediatico del suo ritorno sulla scena. La frustrazione si è sentita tutta nell’intervista con Floris del 13 febbraio quando si è lamentato dei pochi applausi del pubblico, secondo lui molto più generoso con Salvini. Lì ha dato l’immagine di rosicone e non più battitore libero. Non a caso è stata la sua ultima apparizione televisiva.

«Dobbiamo dare stabilità a questo governo e tranquillità al Paese. Perché è questo che ci chiedono gli italiani» ha scritto Di Maio su Facebook ieri sera, proprio dopo un’intervista a Di Martedì. E ha ragione. Agli italiani il Movimento 5 Stelle di lotta non piace più. Non a caso il M5S è arrivato al 32% con la guida Di Maio che ha “normalizzato” il partito durante la campagna elettorale di marzo, mostrando un’immagine affidabile, perfetta per un partito di Governo. Ed ora è passata la linea del capo M5S: basta inseguire Salvini, proporsi come un partito “moderato” in grado di riformare l’Europa per non perdere il travaso di voti a un rinnovato Centrosinistra dopo la vittoria di Zingaretti alle primarie del Partito Democratico. La verità è che tutti sono felici del suo silenzio sul Tav, il caso Diciotti e Franco Cfa perché fino alle elezioni europee il governo gialloverde non si tocca. Poi chissà: la politica è fatta di cicli e magari Di Battista tornerà utile, ma ora dopo un mese di silenzio, non manca a nessuno.

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