Con il funerale dell’antica Lega Nord che sarà celebrato nel congresso del prossimo 21 gennaio, si completa il processo di ristrutturazione del centrodestra italiano: dal nuovo anno scomparirà anche formalmente lo schema a tre punte che si era spartito la rappresentanza del Centro, della Destra e del Nord produttivo. Al suo posto nasce un duopolio, il consolato Matteo Salvini-Giorgia Meloni, dove la vecchia distinzione delle aree geografiche e politiche di influenza sarà assai più labile: entrambi ambiscono a interpretare i valori conservatori, tutti e due rifiutano delimitazioni territoriali, tutti e due corteggiano il Partito del Pil indicando i “lacciuoli europei” come il nemico. Il terzo soggetto, il Centro è stato fagocitato da tempo. Formalmente esiste ancora perché conserva, grazie al voto del 2018, una presenza parlamentare consistente con quasi cento deputati e una sessantina di senatori nei gruppi di Forza Italia. Ma sul territorio lo stato di agonia è piuttosto evidente.
Sabato scorso, a Roma, Forza Italia è sparita dopo vent’anni dal Campidoglio: il suo ultimo consigliere comunale, Davide Bordoni, se ne è andato per aderire alla Lega. Era anche il segretario cittadino del partito, che adesso in città non ha più alcun riferimento. In Regione Lazio dei sei consiglieri eletti, a un anno di distanza, ne sono rimasti solo due: se ne è andato persino il capogruppo, Antonello Aurigemma, pupillo di Antonio Tajani, una carriera ventennale tutta sotto i simboli di Berlusconi. In Emilia Romagna, durante l’estate, si è squagliato verso Fratelli d’Italia il coordinatore regionale Galeazzo Bignami, recordman delle preferenze in Regione, insieme con il segretario nazionale dei giovani forzisti Stefano Cavedagna, eletto alla carica appena un anno fa dal congressino juniores. A Parma la scissione di Toti ha sdraiato l’intera filiera azzurra, dal commissario cittadino al capo dei giovani. In Piemonte lo smottamento si è mosso verso Renzi, che si è annesso pezzi di consiglio comunale (Michele Cocaci) e il notaio delle Madamine Sì-Tav Andrea Ganelli.
C’è chi è scappato per protesta contro la svolta sovranista del partito (il coordinatore del Veneto Davide Bendinelli, passato a Italia Viva), chi in direzione contraria, verso Fdi (l’ex-sindaco di Ascoli Guido Castelli, l’ex numero due in Lombardia Mario Mantovani, i veneti Massimo Giorgetti ed Elena Donazzan). L’elenco è infinito. È un trasloco di massa che alle prossime politiche – vicine o lontane che siano – sancirà una cessazione senza eredi e costituisce un doppio problema per la politica italiana. La destra rischia di perdere il contrappeso moderato che l’aveva resa diversa dal Fn di Marine Le Pen o dall’Afd tedesca, offrendole agibilità in Europa e nei contesti internazionali che contano. La sinistra perde una possibilità di interlocuzione che è stata importante in molte circostanze difficili per il Paese. L’Italia “senza il Centro” rischia di diventare una grottesca replica su larga scala degli antichi opposti estremismi, con gli stigmi del fascismo e del buonismo usati come randelli in mancanza di forze di mediazione.
Tuttavia la politica non si costruisce in laboratorio, e pur riconoscendo la necessità di questo Centro è difficile immaginare come riprodurlo. Ai vecchi tempi dell’estinzione democristiana ci pensò Silvio Berlusconi, inventando il partito che non c’era e portandolo al successo come sappiamo. Ma allora non esisteva un asse di destra così forte, né c’era un Cavaliere, un leader storico della ansimante filiera scudocrociata, con cui fare i conti. Ora è tutto più complicato. Si potrebbe però cominciare a riconoscere che la sparizione di una forza moderata costituisce un problema per tutti e per tutti sarebbe un vantaggio se quello spazio si riempisse.
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