Il pressing interno al Pd contro l’abbraccio con i pentastellati
Da una parte Zingaretti dovrà subire il pressing interno: già il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, renziano rimasto nel Pd come molti altri dirigenti di quella stagione, si è fatto sentire («Il matrimonio tra Pd e M5s mette in evidenza tutti i limiti di alleanze costruite all’ultimo minuto e senza contenuti. Mi auguro che in vista delle prossime regionali il Pd discuta meglio con i territori se sia o meno il caso di presentarsi in coalizione. Meglio misurare il rapporto con i 5 Stelle al governo e solo dopo decidere che cosa fare»). Ma soprattutto nei prossimi giorni prenderanno corpo i dubbi dei dirigenti più vicini al segretario come il vice Andrea Orlando, critico nei confronti di quello che lui giudica un appiattimento sul M5s a partire dalla questione cruciale della giustizia e dai nodi irrisolti della legge di bilancio (carcere agli evasori, microtasse).
La prima dichiarazione di Zingaretti, tuttavia, conferma di fatto la linea dell’accordo con il M5s e piuttosto getta la colpa – neanche troppo tra le righe – sullo “scissionista” Matteo Renzi, che pur avendo dichiarato il suo appoggio a Bianconi si è defilato non partecipando alla manifestazione conclusiva a Terni con i leader e con il premier Conte: «La netta sconfitta dell’alleanza intorno a Vincenzo Bianconi conferma una tendenza negativa del centrosinistra consolidata in questi anni in molti grandi comuni umbri che non si è riusciti a riconquistare. Il risultato intorno a Bianconi conferma, malgrado scissioni e disimpegni, il consenso delle forze che hanno dato vita all’alleanza… Ovviamente rifletteremo molto su questo voto e le scelte da fare, voto certo non aiutato dal caos di polemiche che ha accompagnato la manovra economica del governo».
I dubbi di Di Maio, antagonista di Conte
Dall’altra parte è e sarà il M5s, già in fibrillazione da settimane con la rumorosa dissidenza interna contraria fin dall’inizio all’alleanza con il Pd, a subire il contraccolpo maggiore. Gli elettori pentastellati, emigrati in gran parte già alle europee verso la Lega, sembrano gradire meno di quelli democratici l’alleanza giallo-rossa. Vero che il capo politico Luigi Di Maio ha siglato l’accordo in Umbria con Zingaretti e ci ha messo la faccia in campagna elettorale, ma è anche vero che è meno convinto di Conte sull’opportunità di trasformare l’attuale alleanza di governo, nata dall’emergenza nei giorni del Papeete, in coalizione da ripetere alle prossime politiche come invece vorrebbero il segretario dem e il premier.
Il proporzionale riprende quota
E’ facile immaginare che il riscasco immediato del voto umbro sarà la tenaglia di Di Maio da una parte e di Renzi con la sua Italia viva dall’altra sull’asse fin qui solido tra Conte e Zingaretti. E che le forze centrifughe tenderanno a prevalere coinvolgendo in prospettiva anche la delicata materia della legge elettorale: la definizione di un accordo sulla riforma elettorale, resa necessaria anche per adeguare il sistema all’intervenuto taglio del numero dei parlamentari, è stata rimandata appositamente da Zingaretti per provare a convincere il M5s dell’opportunità di un sistema maggioritario a doppio turno nazionale tra le prime due coalizioni in modo da costruire un “tutti contro” il sovranista Salvini. Dopo il risultato in Umbria questo schema appare appannato, se non pericoloso per l’attuale maggioranza di governo.
Insomma, le regionali umbre spingeranno verso un sistema proporzionale proprio per evitare alleanze pre-elettorali che potrebbero essere percepite come solo “contro” e per questo innaturali. Per la gioia di Matteo Renzi, che punta tutto sul proporzionale per costruire uno spazio terzo per la sua Italia viva: né con il centrodestra a trazione salviniana, naturalmente, ma neanche in alleanza strutturale con il M5s.
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