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Zingaretti, Conte e la sindrome Monti

È legittimo ironizzare sulla sfilza di elogi tributati da Nicola Zingaretti a Giuseppe Conte, alla sua cultura e alla sua sagacia tattica, col trasporto con cui i colleghi di Fantozzi lodavano il montaggio analogico e l’occhio della madre nella Corazzata Potëmkin; ma non si può dire che sia una novità, né una bizzarra esclusiva dell’attuale segretario del Pd. Cambiano i professori – oggi Giuseppe Conte, ieri Mario Monti – ma non cambia l’antico riflesso della classe dirigente post-comunista: se non puoi batterli, unisciti a loro. Se non puoi sconfiggerli, candidali. Tutti per uno, e basta, perché potete stare sicuri che quell’uno si guarderà bene dal farsi irretire dalle contorte strategie seduttive di simili corteggiatori, e li pianterà alla prima occasione, lasciandoli soli a recriminare per intere legislature, come spose abbandonate all’altare, su alleati immaginari, sondaggi psichedelici e vittorie mancate. Accadde proprio così, tra 2011 e 2013, con Monti, inizialmente accolto dal fior fiore del gruppo dirigente del Pd come il salvatore della patria. Di più, sottoposto a un vero e proprio stalking politico, da prima ancora che il governo Berlusconi cadesse.

«Intende smentire o no la notizia del settimanale l’Espresso secondo la quale lei, nell’autunno del 2010, venne contattato dall’onorevole Massimo D’Alema, che a Milano, in una cena a casa di un noto professionista, le propose con altri l’assunzione di responsabilità politiche e di governo nel caso di una caduta anticipata del governo Berlusconi?», domanda Luigi Amicone all’allora presidente del Consiglio, in un’intervista per il settimanale Tempi, il 19 agosto 2012. «Non smentisco quell’occasione e posso solo dire che nel mondo politico ci furono diverse persone che, intorno a quell’epoca, nelle loro previsioni o scenari sul futuro politico italiano di breve termine, mi prospettarono ipotesi che mi coinvolgessero». Ipotesi perfettamente analoghe a quelle che oggi riguardano il professor Conte, elogiato con non minore entusiasmo (ma forse, per essere onesti, con minore senso delle proporzioni).

Fatto sta che alla fase del corteggiamento, Zingaretti dovrebbe saperlo, segue sempre il momento della delusione e del risentimento. Allora tutto precipitò nella seconda metà del 2012, quando Monti decise di farsi un partito tutto per sé, e di candidarsi per conto suo. Da quel momento i suoi corteggiatori cominciarono a masticare amaro, a lanciare persino qualche timida e spuntata minaccia, ma nella sostanza continuarono a illudersi che, all’indomani delle elezioni, dopo questo piccolo colpo di testa, questa avventura senza futuro del partito tutto suo, il matrimonio riparatore si sarebbe comunque celebrato in parlamento. Ben diverso il tono che avrebbero preso le loro ricostruzioni dopo l’amaro risveglio del 2013. E soprattutto negli ultimissimi anni, una volta che il passare del tempo e il mutare degli equilibri di potere ha reso più facile riscrivere la storia.

Pier Luigi Bersani ormai non perde occasione, in tv, per sghignazzare e darsi di gomito con Marco Travaglio, mentre quello spiega come l’operazione Monti fu tutto un complotto di Giorgio Napolitano. E lo stesso fa Massimo D’Alema, ad esempio, nell’intervista del 14 dicembre scorso a Fabrizio d’Esposito per Millennium, il mensile del Fatto quotidiano (intervistatore: «Nel 2011 Napolitano vi impose il governo tecnico di Monti». D’Alema: «Napolitano è stato un ottimo presidente, ma lì ebbe un eccesso di responsabilità, diciamo così»).

Risparmierò al lettore il florilegio di dichiarazioni, articoli e interviste di allora, dalle quali è facile ricostruire con quale sofferenza interiore il gruppo dirigente del Pd subì quell’imposizione, fino all’ultimo. Mi limito al testo di un’agenzia: «Pier Luigi Bersani spera di chiudere velocemente come una voce dal sen fuggita l’ipotesi di voto ad ottobre, avanzata da Stefano Fassina. (…) “Il Pd manterrà il patto, il governo arriva al 2013 senza se e senza ma”, assicura il leader Pd e con lui concorda anche Massimo D’Alema, mettendo a tacere i malumori crescenti tra i democratici verso le scelte del governo dei tecnici» (Ansa, 6 giugno 2012).

Tra il montismo di allora e il contismo di oggi c’è una sola, importante, differenza. Se un merito, infatti, andrebbe riconosciuto a Nicola Zingaretti è di essere stato, lui sì, davvero l’unico a opporsi all’assurda idea di confermare alla guida del nuovo governo (che avrebbe dovuto salvare l’Italia dal precipizio), lo stesso presidente del Consiglio del governo precedente (che ce l’aveva portata). Ma sbaglierebbe a illudersi che tanto basti a permettergli di fare come i suoi smemorati predecessori. E magari tra qualche anno spiegare anche lui, come Bersani all’inizio di quest’anno (17 gennaio 2019, sul Giornale) a proposito dell’operazione Monti, che era stata tutta colpa degli altri, dei dirigenti del suo partito e del presidente della Repubblica, che addirittura lo avrebbero sottoposto, per un anno, a un continuo «esame di montismo».

Come dimostra l’agenzia riportata un attimo fa, c’era allora nel Pd chi chiedeva di interrompere il prima possibile quell’esperienza e tornare al voto – a cominciare da Stefano Fassina e Matteo Orfini – e furono loro, semmai, a essere sottoposti a un continuo esame di montismo, e bocciati senza appello, da Bersani e da tutto il resto del gruppo dirigente. C’erano allora e ci sono oggi, dentro e fuori il Pd, coloro che provano a indicare il pericolo per tempo. L’unico vantaggio di cui Zingaretti dovrebbe godere, rispetto al passato, è dunque il senno del poi. Il problema è che per usufruire del senno del poi, sfortunatamente, non basta arrivare poi. Occorre anche, se non proprio una sagacia tattica paragonabile a quella del presidente Conte, almeno un minimo di senno.

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/12/24/zingaretti-conte-monti-partito-democratico/44871/

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