Il Pd è quel partito in cui può succedere tutto e il contrario di tutto, nel giro di poche ore. Ed è esattamente ciò che si sta registrando in questi giorni, in cui la follia sembra essere diventato un fattore determinante in tutto l’arco delle forze parlamentari, nessuna esclusa.
Capita così che, da un giorno all’altro, colui che si è sempre professato come il bastione invalicabile a difesa della purezza della vocazione maggioritaria in chiave anti-grillina, rilasci un’intervista in cui propone una maggioranza il cui caposaldo diventa l’alleanza Pd-Cinque Stelle, per evitare il ricorso alle urne. E, al tempo stesso, capita che a tentare di chiudere questa strada sia il segretario eletto solo lo scorso marzo, accusato per mesi di voler condurre il partito verso l’abbraccio mortale con i paladini dell’antipolitica.
Se un marziano si palesasse a Roma in queste ore, si metterebbe le mani nei capelli, ammesso che ne abbia. Chi ne ha pochi, come Nicola Zingaretti, deve scegliere altri metodi per sfogare rabbia e frustrazione. Chi lo conosce bene lo descrive come letteralmente furibondo per le parole usate da Matteo Renzi per sconfessare la sua linea (quella del “voto subito”), tra l’altro approvata poche settimane fa dalla Direzione nazionale. E che, nella sua replica affidata al blog su Huffington Post, avrebbe voluto essere molto più duro. A riportarlo a più miti consigli sarebbe stato Paolo Gentiloni, rimasto l’unico big (insieme a Calenda) ad appoggiarlo esplicitamente.
L’accusa rivoltagli da Renzi – voler andare alle elezioni per poter piazzare i suoi in Parlamento – l’ha ferito profondamente: «Era stato Nicola a chiedergli di aiutare il Pd in questa fase, facendo un’importante apertura di credito nei suoi confronti – spiega uno degli ascari zingaretiani, chiedendo l’anonimato – e lui risponde così, facendo finta di voler fare gli interessi del Paese ed evocando la Ditta, per alimentare la retorica sulla segreteria Zingaretti come se fosse una continuazione di Bersani o D’Alema. La verità è che è lui che non vuole perdere quel poco potere che gli è rimasto. Siamo davanti ad un maldestro tentativo di killeraggio politico».
In effetti, tempi e modi dell’offensiva renziana non lasciano molto spazio alle interpretazioni. Ma perché tutto questo? Gli interessi del Paese a cui si appella Renzi c’entrano poco, molto poco. Dietro c’è tutt’altro. In primis c’è proprio il tentativo di conservare il suo spazio politico, interesse che coincide con quello dei gruppi parlamentari che ancora controlla. Lo spirito di conservazione di una classe dirigente destinata in gran parte a scomparire, se si dovesse andare al voto, è una leva fondamentale che sta utilizzando Renzi per provare a portare a compimento il suo piano.
Un piano che prevede, naturalmente, il ridimensionamento dell’autorevolezza di Zingaretti come segretario del Pd, con buona pace del “bagno di folla” delle primarie di pochi mesi fa. Quello dell’ex premier è un gioco tutto di palazzo.
Un gioco in cui prendere tempo è fondamentale, per poter arrivare finalmente alla nascita di un nuovo partito di centro, da dare vita insieme all’ala di Forza Italia che non ha intenzione di seguire Salvini nella sua deriva estremista. Il “voto subito” significherebbe togliere spazio (e soprattutto tempo) a questa possibilità. Che a fare da sponda a questo tentativo sia soprattutto Dario Franceschini (che, insieme a Lorenzo Guerini, sta portando avanti la trattativa con i pentastellati) è solo l’ultimo boccone amaro che deve mandare giù il segretario, nonché l’ulteriore dimostrazione che Renzi sia disposto a passare sopra a mesi di insulti e accuse reciproche pur di completare il suo disegno.
Zingaretti, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di indietreggiare. L’unico governo di transizione che può accettare è quello che il presidente Mattarella potrebbe individuare per portare ordinatamente il Paese al voto, togliendo il Viminale dalla grinfie di Salvini, che evidentemente non potrebbe fornire le necessarie garanzie di controllo imparziale del voto.
Qualsiasi altro “accordicchio” non sarebbe in alcun modo accettabile. Troppo fresco il ricordo dei famosi governi tecnici, in cui il Pd si è dovuto sobbarcare responsabilità inaudite, per poi puntualmente pagarne il conto alle elezioni. A questo punto, rilancia Goffredo Bettini, uomo sempre molto ascoltato dal segretario, «se cade la pregiudiziale verso i Cinque Stelle, sarebbe meglio ragionare su una maggioranza vera, facendo un’operazione limpida», che possa dar vita ad un governo duraturo. Qualcosa si muove.
Al Nazareno sono ore convulse. Si guarda con trepidante interesse alle prossime mosse di Salvini e anche di Di Maio, che, sentendosi ormai di fatto fuori da qualsiasi piano alternativo, è tornato a chiedere la fiducia al premier Giuseppe Conte. La war room zingarettiana, che sta prendendo forma in vista di un’imminente campagna elettorale che viene considerata tutt’altro che chiusa, si trova ora a fronteggiare l’offensiva interna, che potrebbe rivelarsi esplosiva: «Se la situazione non cambia – ragionano i fedelissimi del segretario – porteremo la questione in Direzione, che è l’organo deputato a prendere le decisioni. Chi volesse sconfessare la linea fissata lo dovrà fare in quel contesto. E se i gruppi parlamentari decidessero di non adeguarsi, se ne assumeranno le responsabilità davanti al partito e al Paese».
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/08/12/governo-pd-5s-renzi-intervista-zingaretti/43185/