Pubblicato il: 06/03/2020 15:52
“Negli ultimi decenni le donne italiane hanno fatto passi da gigante nel mondo del lavoro. Già a partire dal secondo dopoguerra l’occupazione femminile è cresciuta a ritmi sempre più intensi per effetto della progressiva terziarizzazione del lavoro a scapito delle attività tradizionali dell’industria e dell’agricoltura. Dal 1975 ad oggi il numero delle lavoratrici è quasi raddoppiato (da 5,6 a 9,9 milioni di unità) e la quota di donne sul totale è salita dal 28,6% al 42,3%. Tuttavia permangono ancora oggi problemi di fondo difficili da scalfire e riconducibili in larga parte alle difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di cura della casa e della famiglia”. A dirlo, in vista della festa della donna Franco D’Amico, coordinatore scientifico dell’Anmil e responsabile dei Servizi statistico-informativi Anmil il divario lavorativo.
Il risultato “è che le donne italiane presentano un gap occupazionale eclatante sia all’interno rispetto agli uomini che all’esterno rispetto alle donne del resto d’Europa”. In campo infortunistico, “la declinazione uomo/donna mette in evidenza molteplici e significative differenziazioni, sia per quanto riguarda l’andamento che le varie caratteristiche del fenomeno. Innanzitutto, il numero delle lavoratrici che si infortunano è nettamente inferiore a quello dei colleghi maschi, a tutti i livelli di gravità”.
“Nel corso dell’ultimo quinquennio – continua D’Amico – l’andamento infortunistico, sia in complesso che per entrambi i sessi, si è mantenuto sostanzialmente stazionario: gli infortuni maschili si attestano intorno alle 410.000 unità, quelli femminili a 230.000, vale a dire poco più della metà. Quanto detto si riferisce ai valori assoluti, ma anche in termini relativi il gap risulta notevole: il tasso di incidenza infortunistica (numero di infortuni per 1.000 occupati) è attualmente pari a 30,5% per gli uomini e a 23,2% per le donne. Il divario appare ancora più evidente nel caso degli infortuni lavorativi con esiti mortali dove il numero di quelli femminili, in media circa 115 decessi l’anno nell’ultimo quinquennio, risulta pari a meno di un decimo di quelli maschili la cui media annua si attesta intorno ai 1.200 casi (il dato dell’anno 2019 non è stato preso in considerazione in quanto del tutto provvisorio)“.
“Situazione analoga – sottolinea – si riscontra per le malattie professionali, dove delle circa 60.000 che vengono denunciate annualmente solo il 27% (16.000 circa) riguarda la componente femminile. C’è dunque, inequivocabile, una forte sperequazione nei livelli infortunistici dei due sessi, legati alla differente rischiosità delle attività esercitate”.
“Le donne – ricorda Franco D’Amico – sono occupate principalmente nei settori dei servizi che hanno bassi livelli di frequenza infortunistica; la presenza degli uomini è invece assolutamente preponderante in agricoltura, nell’industria e in particolare in quei settori come metallurgia, estrazione minerali, costruzioni, trasporti ecc. che fanno registrare i tassi di pericolosità più elevati e nei quali la presenza femminile è praticamente marginale e circoscritta a ruoli quasi esclusivamente impiegatizi-amministrativi”.
“La netta differenza di genere – precisa – che si riscontra nell’incidenza infortunistica, a tutti i livelli di gravità, si riflette poi necessariamente sulla quantità e qualità degli indennizzi erogati dall’Inail. I lavoratori maschi, infatti, sono nettamente prevalenti nella concessione di indennità giornaliere per inabilità temporanea e di rendite per inabilità permanente; mentre le donne, a causa proprio della maggiore mortalità degli uomini, sono quelle che percepiscono la stragrande maggioranza delle rendite a superstiti”.
Scarsa considerazione delle specificità delle lesioni femminili ovvero la frequente sottostima delle loro conseguenze rispetto ad analoghe lesioni maschili, negando rilevanza a risvolti fisici e psichici del tutto peculiari che non possono non essere presi in considerazione in sede di quantificazione del danno derivante da un infortunio sul lavoro. Sono alcune delle osservazioni rilevate dal Gruppo donne Anmil negli ultimi anni e rese note in vista della Festa della donna.
Sulla base dei propri studi, l’Associazione ha individuato numerose criticità da affrontare per adeguare l’attuale sistema di tutela contro gli infortuni sul lavoro alle differenze di genere e al ruolo della donna, da cui sono derivate alcune proposte di miglioramento dell’attuale normativa.
Analoga attenzione è stata sollecitata in tema di reinserimento professionale della donna vittima di un incidente sul lavoro o malattia professionale, da migliorare in ottica di genere, valorizzando la formazione di base e le potenzialità manifestate dalle donne, superando ogni forma di delimitazione dell’area di indirizzo della formazione al femminile, incentivandone lo svolgimento sul posto di lavoro e riconoscendo l’intervento come contenuto del più ampio diritto all’indennizzo a carico dell’Assicuratore.
L’Anmil ha voluto poi avviare una riflessione sull’assicurazione contro gli infortuni domestici da rivedere per renderlo maggiormente aderente alle esigenze delle donne lavoratrici. Attualmente, infatti, sono esclusi dall’assicurazione coloro che svolgono altra attività che comporti l’iscrizione a forme obbligatorie di previdenza sociale. Questa limitazione costituisce per l’Anmil una ingiusta negazione della duplicità dell’impegno lavorativo della donna che lavora sia fuori che nell’ambito della casa, che comunque rimane esposta, senza tutele, ai rischi legati alla gestione domestica; motivo per cui si ritiene urgente una modifica normativa che consenta l’iscrizione anche di coloro che svolgono un’attività lavorativa esterna.
Nella stessa ottica si auspica il superamento del legame dell’assicurazione di cui sopra al lavoro in casa, intesa questa come luogo fisico di svolgimento delle attività tutelate, per estendere la protezione assicurativa a tutte le attività comunque connesse alla cura della famiglia e la gestione domestica. Il lavoro dell’Anmil è poi proseguito approfondendo la condizione della donna come superstite di una vittima del lavoro. Un infortunio con esito mortale, infatti, oltre a lasciare un vuoto incolmabile nella famiglia della vittima, ha anche ripercussioni pesanti dal punto di vista economico e pratico, delle quali le donne, già provate dalla perdita, devono farsi carico.
Sotto questo aspetto l’Anmil ritiene indispensabile affrontare alcune criticità della normativa vigente, al fine di meglio sostenere le famiglie delle vittime di infortuni e malattie professionali.
1. Escludere le prestazioni erogate a vedove e orfani di vittime di infortuni sul lavoro o di malattie professionali dal reddito rilevante per il calcolo dell’Isee ai fini dell’ottenimento di prestazioni e servizi basati sul reddito stesso. Le rendite ai superstiti, infatti, pur non essendo soggette a tassazione Irpef, devono essere dichiarate nel reddito rilevante ai fini del calcolo dell’Isee, con grave danno per le famiglie che hanno perso un proprio congiunto e devono trovarsi a fronteggiare situazioni spesso delicate anche dal punto di vista economico. Va poi rilevato che l’assunzione delle rendite e delle indennità risarcitorie nell’ambito della determinazione dell’Isee potrebbe essere ostativa all’ottenimento delle prestazioni sociali e assistenziali e pregiudicherebbe la funzione loro attribuita dall’ordinamento giuridico.
2. Rivedere gli istituti dell’assegno funerario, oggi del valore di 10.000 euro, e della prestazione erogata a carico del Fondo per le vittime di gravi infortuni. Le due prestazioni sono infatti analoghe e sovrapponibili e appare doverosa una riflessione sull’opportunità di una loro razionalizzazione e migliore gestione. Il concetto di ‘assegno funerario’ appare oggi anacronistico e dovrebbe essere superato a favore di un sostegno immediato e strutturato alle famiglie delle vittime, che l’Inail possa attivare automaticamente ogni volta che si verifichi un incidente mortale (ad oggi sia l’assegno una tantum Inail che quello afferente al Fondo gravi infortuni sono erogati solo su richiesta degli interessati).
3. Potrebbe essere di conseguenza valutata l’unificazione delle due prestazioni, attraverso il trasferimento delle somme del Fondo per le vittime di gravi infortuni all’Inail, il quale provvederà ad erogare d’ufficio alle famiglie delle vittime una prestazione di sostegno adeguata alle loro esigenze.
4. Riconsiderare le prestazioni riconosciute ai superstiti di infortuni e malattie professionali, alla luce dell’evoluzione della società e dei rapporti familiari. In particolare si vorrebbe superare l’attuale limitazione per la quale le quote integrative della rendita Inail in favore dei figli studenti universitari sono erogate solo se in corso regolare di studi. Fermo restando che appare discutibile il limite dei 26 anni per la rendita ai figli di caduti sul lavoro anche in considerazione delle recenti varie pronunce della Cassazione sui limiti di età del mantenimento dei figli da parte dei genitori, sarebbe comunque auspicabile che l’Istituto non negasse l’integrazione agli studenti non in regola con il corso di studi, considerate le numerose difficoltà che la perdita di un genitore comporta nella vita quotidiana.
5. Equiparare il regime della rendita ai superstiti Inail alla reversibilità della pensione Inps per quanto attiene alla percentuale riconosciuta al coniuge superstite. Al coniuge attualmente è riconosciuta dall’Inail una quota pari al 50% della rendita ai superstiti calcolata sulla retribuzione del lavoratore, fino a morte o a nuovo matrimonio. Tale percentuale appare però troppo esigua rispetto al costo umano ed economico che la perdita del coniuge comporta nella vita quotidiana. Si propone pertanto di elevare la percentuale almeno al 60%, per poter contare su prestazioni più adeguate ai bisogni del coniuge superstite.
6. Garantire la piena erogazione delle prestazioni di assistenza psicologica a carico dell’Inail in favore dei superstiti di caduti sul lavoro o per malattie professionali.
Si tratta in questo caso di una storica battaglia dell’Anmil a favore di tutte le vittime di incidenti sul lavoro che acquista un particolare significato quando si tratta di supportare il coniuge superstite e i figli nel processo di elaborazione della perdita e garantire loro un efficace sostegno psicologico per affrontare tutte le difficoltà che ne derivano.
7. Portare ad attuazione l’equiparazione delle vedove e dei superstiti delle vittime del lavoro alle vittime del dovere e della criminalità organizzata per quanto riguarda il diritto al lavoro, rimasta solo un’enunciazione di principio.
“Negli anni la condizione delle vedove di lavoratori deceduti sul posto di lavoro è cambiata e, anche grazie all’Anmil, tutte le rendite ai superstiti vengano calcolate sulla base del massimale di legge. Non esistono più, infatti, le vedove si serie A e quelle di serie B“. Lo ricorda Franco D’Amico, coordinatore scientifico dell’Anmil e responsabile dei Servizi statistico-informativi Anmil il divario lavorativo.
“Allo stato attuale – afferma – ci sono circa 85.000 vedove di lavoratori deceduti per cause lavorative, di cui 47.000 (55%) a seguito di infortunio e 38.000 (45%) per malattia professionale. Si tratta per la gran parte di eventi relativi ai decenni passati: l’età media delle vedove risulta infatti superiore a 75 anni; la rendita media annua è pari a circa 12.000 euro. Inoltre, ogni anno vengono costituite circa 2.800 rendite a superstiti, di cui si stima che siano 2.000 i nuovi casi di rendite assegnate a vedove di lavoratori deceduti, di cui 800 (40%) a seguito di infortunio e 1.200 a seguito di malattia professionale”.
Si tratta “in questo caso di eventi verificatisi nell’ultimo anno, per cui le donne risultano molto più giovani, con età intorno ai 45 anni. Al di là delle tragiche conseguenze sul piano umano, familiare e psicologico, che necessariamente si accompagnano ad un evento traumatico, come può essere la morte di un marito, c’è da considerare anche gli aspetti economici di una moglie, di una famiglia che ha perduto quella che è la principale e spesso unica fonte di sostentamento”.
“Su questo fronte – spiega – alcune cose sono migliorate rispetto ad una situazione che fino a pochi anni fa era assolutamente inadeguata, quasi irrispettosa nei confronti di chi ha perduto il proprio compagno nell’adempimento del proprio dovere. Per molti decenni, infatti, e fino a tutto il 2013, la rendita vedovile veniva calcolata sulla base delle disposizioni contenute nel Testo unico del 1965, pari al 50% della retribuzione percepita dal lavoratore nei dodici mesi precedenti il decesso, nei limiti di un minimale e massimale di legge che, per l’anno 2013, erano pari rispettivamente a 15.500 euro circa e a 28.800 euro”.
“L’importo della rendita – chiarisce – assegnata alla vedova variava quindi da un minimo di 645 euro a un massimo di 1.200 euro mensili, un rapporto quasi 1 a 2; questo determinava una forte disparità tra chi al momento del decesso percepiva un reddito basso (in genere giovani lavoratori all’inizio della carriera) ed uno elevato, creando così una assurda quanto ingiustificabile discriminazione tra ‘vedove di serie A’ e ‘vedove di serie B’ che, poi, di fatto si risolveva nel dualismo ‘vedove anziane-vedove giovani'”.
“Grazie alla determinata azione dell’Anmil – sottolinea – di sollecitazione istituzionale, a decorrere dal 1° gennaio 2014 la legge 147/2013 (legge di stabilità 2014) ha provveduto a sanare questo ‘gap reddituale’ stabilendo che tutte le rendite ai superstiti vengano calcolate sulla base del massimale di legge”.
Attualmente “dunque la rendita percepita da ogni vedova, qualunque sia stato il salario del coniuge deceduto, ammonta a circa 1.280 euro mensili; la rendita sale a circa 1.800 euro mensili nel caso di vedova con 1 orfano, a 2.300 con 2 orfani e a 2.560 con 3 o più orfani“.
Più recentemente, “la legge 145/2018 (legge di stabilità 2019) ha fissato in 10.000 euro l’assegno una tantum che sostituisce il vecchio assegno funerario, pari a poco più di 2.000 euro, che veniva erogato per far fronte alle prime spese derivanti dal tragico evento. Piccoli ma significativi riconoscimenti che consentono, quantomeno, di condurre una vita un po’ più dignitosa a quelle donne e a quelle famiglie che hanno conosciuto la tragedia di non vedere il proprio marito rientrare a casa dal posto di lavoro”.
Adnkronos.