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Contraffazione, Auzino: basta ‘fake’, salviamo il Made in Italy

“La situazione potrebbe cambiare con l’opposizione di grandi brand e consumatori”

Basta con il mercato del “fake”, dei prodotti contraffatti venduti sulle bancarelle, e non solo. È urgente voltare pagina, se non si vuole far morire il settore manifatturiero. E la mission da portare avanti, con una crisi economica accentuata dall’emergenza pandemica, è chiara: avviare una decisa campagna, a tutti i livelli, per tutelare il Made in Italy. A lanciare il grido d’allarme è Ornella Auzino, imprenditrice napoletana titolare di un’azienda che produce borse per conto terzi e che annovera tra i suoi clienti anche alcune griffe del lusso.

In questo periodo si parla ancora meno di contraffazione, perché viene ritenuta un ammortizzatore sociale, che dà ‘lavoro’ ai clandestini, ai disoccupati e alle fabbriche inattive. Si tratta di un male che affligge da tempo il settore e negli ultimi anni – al ‘comune fake’ cosiddetto da bancarella – si è affiancato l’overrunning, ovvero la sovrapproduzione fatta dagli stessi artigiani che producono per i brand del lusso”, spiega Auzino, che aggiunge: “La normativa è davvero blanda per chi compra e non disincentiva assolutamente. Ed è anche complesso segnalare su Facebook o Instagram che quell’utente sta vendendo prodotti illegali e contraffatti perché non viene menzionata tra le possibili segnalazioni. Infatti, frequentemente accade che segnalando una pagina il social in questione risponde che non vìola le linee guida della community. Se però i grandi brand ed i consumatori cominciassero ad opporsi, qualcosa potrebbe cambierebbe...”.

Basterebbe seguire l’esempio di chi ha già messo in atto una strategia adeguata: “Un po’ come quando Sky, Netflix ed altri portali di streaming online si sono coalizzati contro il ‘pezzotto’ e la visione delle partite in maniera illegale. Da allora Google ed i social fanno molta attenzione a quello che viene messo online. Perché – rimarca Auzino – non può accadere anche con la contraffazione?”.

L’imprenditrice poi prende spunto dalla questione ‘ristori’ per delineare lo stato dell’arte nel settore della pelletteria: “A fronte di ‘ristori’ quasi inesistenti, quello che risulta più complicato è programmare il futuro ed avere la certezza che il settore della pelletteria sia davvero tutelato”. “Dietro alla produzione di una borsa – spiega Auzino – c’è un grande indotto, grazie al quale è possibile dare lavoro a migliaia di famiglie. All’inizio dell’allarme pandemico noi per precauzione avevamo chiuso una settimana prima l’azienda, rispetto a quello che è stato deciso a livello governativo, per placare l’ansia dei dipendenti che non avevano punti di riferimento chiari. In seguito alla chiusura, abbiamo usufruito della cassa integrazione Covid anche se, per il nostro settore, è un ammortizzatore sociale già previsto ed abbiamo avuto un reintegro sulla perdita di fatturato, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, molto esiguo, parliamo di circa il 10%. Poiché non è stato sufficiente, siamo stati costretti a ricorrere all’indebitamento bancario con i tassi agevolati per il Covid”.

L’imprenditrice si pone quindi alcuni interrogativi: “Chi sta pensando al settore? Chi si sta occupando di monitorare il numero di fabbriche che oppresse dalla crisi, stanno chiudendo? Chi sta progettando piani di supporto a lungo termine per sostenere le aziende che devono fare i conti con il nuovo mondo? Il settore della pelletteria, calzatura e piccola pelletteria – prosegue – rappresenta un’eccellenza, in grado di esportare prodotti di altissima qualità, Made in Italy, in tutto il mondo”.

Il punto finale è il seguente: “Una fabbrica non è solo un luogo produttivo ma un ‘campo scuol e ad ogni chiusura aziendale si perde sempre più la speranza che si possa tramandare l’arte manifatturiera italiana”, conclude Auzino.

 

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