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Coronavirus: Deloitte, gestione del rischio non è abbracciata da pmi italiane 

Deloitte, gestione del rischio non è abbracciata da pmi italiane

Ernesto Lanzillo, Deloitte private leader e senior partner di Deloitte

Deloitte presenta il report ‘Covid-19-Il cambio di paradigma per le aziende private’, realizzato con l’obiettivo di condividere le competenze e l’esperienza del proprio network a servizio delle aziende italiane che si trovano a rispondere all’emergenza globale, per favorire una reazione resiliente, rapida ed efficace. L’analisi considera sei ambiti chiave per la risposta alla crisi, desunti dalla esperienza internazionale di Deloitte, che saranno approfonditi ulteriormente con specifiche contestualizzazioni sulla dinamica italiana. Prima della diffusione del Covid-19, un’impresa su due, attiva in Italia e in Europa, affermava che la cultura del risk management era diffusa all’interno della propria organizzazione. I principali rischi identificati erano di natura operativa, percepiti come i più concreti e di maggiore portata per l’organizzazione.

“La gestione del rischio – spiega Ernesto Lanzillo, Deloitte private leader e senior partner di Deloitte – non è pienamente abbracciata dalle pmi italiane: molte aziende, anche a carattere familiare, infatti, devono ancora effettuare un cambiamento culturale per non considerare più il rischio come costo bensì come opportunità. La crisi che stiamo vivendo, ha sicuramente accelerato il processo di adozione di pratiche di gestione del rischio, con effetti anche nelle aziende meno strutturate. Il punto di partenza è l’istituzione del cosiddetto command center, che coordini le azioni di risposta all’emergenza, raccogliendo e comunicando le informazioni agli stakeholder interni ed esterni all’organizzazione e supportando le decisioni della leadership. Al termine della crisi, il command center potrà continuare a valorizzare le pratiche di resilienza apprese, in modo trasversale e continuativo all’interno dell’organizzazione”.

La prima azione indicata per la gestione delle risorse umane in tempo di epidemia è l’istituzione del lavoro agile, come conferma l’82% delle imprese intervistate in un recente sondaggio di Deloitte. Per far ciò, le aziende hanno dovuto adottare strumenti per il lavoro online (67%) o rendere disponibili i propri servizi all’interno di piattaforme digitali esistenti (59%). In quest’ottica vanno lette anche le previsioni di un sostanziale aumento della spesa per le infrastrutture tecnologiche anche a supporto delle videoconferenze che consentono la collaborazione all’interno dell’azienda.

“L’assegnazione e lo svolgimento del lavoro – spiega Lanzillo – sono cambiati in modo radicale in questi ultimi mesi. Prima della crisi, erano 570 mila i dipendenti italiani che usufruivano del lavoro agile: un numero che, seppure in crescita del 20% rispetto all’anno precedente, rimane comunque limitato se confrontato con la media Ue. Nel 2018, infatti, l’Italia contava il 3,6% di lavoratori da remoto mentre in Europa la pratica era adottata dal 5,2%”. Nel contesto di emergenza, “il divario più grande l’hanno dovuto colmare le pmi: prima della crisi, una su due si diceva disinteressata all’introduzione dello smart working. I vantaggi di questa pratica non si fermeranno con il termine dell’emergenza sanitaria: è provato che la flessibilità lavorativa porti benefici tangibili sia alla produttività sia al benessere dei dipendenti”.

Il peggioramento delle performance aziendali è ormai una certezza per molte aziende in Italia e all’estero. Si stima infatti che il 20% delle imprese nel mondo stiano già riscontrando problemi di liquidità che mettono a repentaglio la continuità aziendale e, se la situazione non migliorasse, la percentuale continuerebbe a crescere.

“Stiamo vivendo uno shock – commenta Eugenio Puddu, consumer products leader e senior partner di Deloitte – che interessa contemporaneamente offerta e domanda. Infatti, al temporaneo o prolungato blocco di molte attività corrisponde una contrazione della richiesta di beni e servizi a livello nazionale e internazionale. In questo contesto di emergenza sanitaria, le aziende che stanno lottando per la redditività, come quelle con scarse riserve di liquidità o flussi di cassa instabili, sono particolarmente vulnerabili. Le realtà che operano in settori come il turismo, i trasporti o i beni di consumo, ad esempio, sono state particolarmente colpite dalla contrazione della domanda e possono essere esposte a un rischio finanziario e di continuità aziendale maggiore”.

“La natura interconnessa e globale – spiega Puddu – rende i sistemi di approvvigionamento e distribuzione sempre più vulnerabili a shock esterni, esponendoli a maggiori rischi e riducendo il margine di tolleranza di un errore in caso di ritardi o interruzioni della catena. A livello globale, circa il 75% delle imprese ha già accusato un impatto sulla propria supply chain a causa delle restrizioni logistiche legate all’epidemia Covid-19”.

“L’attento monitoraggio della catena di approvvigionamento e di distribuzione – precisa Puddu – costituisce un elemento chiave nella prima fase di risposta all’emergenza così come in vista del ritorno alla normalità, sia per le aziende ancora attive sia per quelle sottoposte alla temporanea sospensione delle attività produttive. In tale contesto, è particolarmente importante raccogliere informazioni sugli operatori che fanno parte della propria supply chain: solo tramite una conoscenza approfondita dello stato di magazzino o dell’evasione degli ordini si può monitorare e prevenire l’insorgere di eventuali problemi per il proprio business”. Un ulteriore elemento di attenzione è costituito dalla forte domanda di servizi e beni digitali. Nella seconda settimana di lockdown in Italia, la domanda di shopping online è cresciuta del 147% rispetto alla prima settimana di blocco. Già da prima della crisi, tuttavia, l’accessibilità era identificata come leva per l’acquisto al pari di prodotto e prezzo da un consumatore su due.

“In un periodo di trasformazioni radicali delle abitudini – afferma Ernesto Lanzillo – il digitale ha raccolto ulteriori consensi affermandosi a tutti gli effetti come importante strumento a servizio dei consumatori. Possiamo aspettarci che questa tendenza si consolidi anche con l’allentamento delle misure di distanziamento sociale. Nel medio termine, bisognerà quindi valutare lo spostamento di risorse dai canali tradizionali al digitale. In tal caso, le pmi italiane dovranno aumentare gli sforzi per la digitalizzazione. Basti pensare che sono solo il 10% le pmi che puntano sull’e-commerce in Italia; un dato notevolmente inferiore alla media delle piccole e medie imprese in Europa”.

 

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