In Europa sono 676, in Italia sono 72. Parliamo dei Digital Innovation Hub (DIH), lo strumento voluto dalla Commissione europea per supportare le imprese nei processi innovativi, in particolare le Pmi, e rafforzare il collegamento tra ricerca e industria. Si tratta di veri e propri Sportelli unici digitali, in grado di mettere a disposizione un ampio know how, offrire una porta di accesso verso piattaforme e infrastrutture specializzate, promuovendo lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze.
L’universo dei DIH iscritti al catalogo creato dalla Commissione europea, il “registro’ dei poli di innovazione digitale, è stato fotografato da un articolo pubblicato su Sinappsi, la rivista scientifica dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche).
A livello europeo, sono Spagna, Italia e Germania i primi tre paesi con il maggior numero di iniziative. L’Italia è al secondo posto sia considerando i soli DIH già operativi, sia considerando anche quelli in corso di implementazione.
In Europa la maggior parte dei DIH fornisce servizi per la costruzione di ecosistemi, scouting, brokeraggio, networking (514), promozione di ricerche collaborative (494), l’istruzione e lo sviluppo delle competenze (490). Rispetto alla specializzazione tecnologica, emerge una prevalenza della cosiddetta internet of things (477) seguita dall’intelligenza artificiale (409), big data e analisi e gestione dei dati (376), robotica (368).
La loro diffusione territoriale non dipende dal Pil prodotto: in Italia, infatti, troviamo tra i primi posti regioni più sviluppate come l’Emilia Romagna (10), la Lombardia (9) e il Veneto (7) ma anche regioni del Sud come la Campania (6).
La maggior diffusione si riscontra laddove è maggiore la concentrazione di microimprese e di imprese ad alto tasso di crescita: in questo caso si conferma il dinamismo delle regioni del Nord-Est, ma si evidenzia al contempo un risultato maggiore in alcune regioni del Sud rispetto ad altre del Centro e del Nord Ovest.
“Se è vero che la crisi pandemica ha determinato uno shock della domanda e dell’offerta nella maggior parte dei settori – ha rilevato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – non possiamo non rilevare come abbia anche accelerato alcuni processi di innovazione che possono rappresentare un’opportunità per ripensare i processi produttivi e organizzativi. La scelta strategica di investire in innovazione oggi non è più un’opzione ma una scelta obbligata, che se ben interpretata può rappresentare una scorciatoia nel recupero dei divari territoriali di sviluppo soprattutto nelle regioni del Sud. Dal punto di vista industriale questi Hub possono giocare un ruolo importante per far crescere reti all’interno e tra regioni, coordinare attori e attività per favorire il processo di digitalizzazione; questo a patto che si giunga ad una maggiore connessione tra ricerca accademica, start up e aziende affermate”.
I DIH italiani si caratterizzano per modelli di governance variegati e perlopiù basati su collaborazioni pubblico-privato, una operatività che si esprime a livello regionale o nazionale (71%), anche se c’è una tendenza ad ampliare l’ambito di operatività a livello europeo, una offerta di servizi rivolta in gran parte alle imprese con le amministrazioni pubbliche che appaiono meno considerate (solo il 16% offre servizi di sostegno alla digitalizzazione della PA), finanziamenti a carattere prevalentemente pubblico con fund raising di diversa derivazione europea (fondi strutturali), nazionale e regionale. Inoltre, l’Italia risulta essere, come la Germania, più specializzata nel settore manifatturiero e con bassa specializzazione nel settore energia.
Nati nel 2016, in cinque anni di attività i DIH hanno potuto mettere a fuoco la loro funzione, le modalità operative e la gamma dei servizi da offrire, che riguardano non solo aspetti della produzione, ma anche e soprattutto i sistemi organizzativi interni, la formazione, la costruzione di una nuova cultura che consenta di affrontare le questioni poste dall’innovazione 4.0 non in maniera parziale segmentata per singoli aspetti (commerciale, logistica, produzione, ecc.), come spesso avviene, ma considerando l’intero ecosistema che comprende: imprese, lavoratori, parti sociali, cittadinanza attiva, accademia, pubblica amministrazione.
“Un importante elemento da considerare – ha sottolineato Fadda – riguarda il profilo del nostro mondo imprenditoriale: quanti sono oggi quelli disposti a correre il rischio dell’innovazione, avendo vissuto a lungo in un ambiente protetto? Nelle condizioni attuali post-pandemia, caratterizzate da forte incertezza macroeconomica, è possibile che siano ancora più cauti e resistenti al cambiamento, causando una sorta di inerzia strutturale. Oltre alle difficoltà nell’accedere efficacemente e rapidamente a queste nuove tecnologie, sia per mancanza di specifiche attività di Ricerca e Sviluppo, sia per inadeguatezza del “capitale umano” idoneo per la loro adozione, le infrastrutture di rete risultano ancora insufficienti. Il PNRR dovrà superare i limiti del piano Industria 4.0, il cui principale difetto sta nel fornire i soliti sussidi allo sportello, piuttosto che prevedere azioni programmate in funzione di obiettivi specifici. Ma questo sarebbe possibile solo se parte di un piano strategico di politica industriale, che purtroppo non esiste ancora.
Sarà, inoltre, indispensabile un approccio estremamente pragmatico. Una delle problematiche di attuazione del Piano è la velocità di spesa. Per accorciare i tempi di realizzazione degli interventi si potrebbe partire dalle strutture già presenti sui territori come i DIH, sui quali il nostro Paese ha un buon posizionamento nel contesto europeo”.