Pubblicato il: 02/05/2019 17:47
Sembra tornato il disgelo tra governo e sindacati e tra Confindustria e sindacati. E se il primo “puzza un po’ di bruciato” perché questo esecutivo, pur dicendosi da sempre “espressione diretta della volontà del popolo”, guarda caso ha incontrato i sindacati alla vigilia delle prossime elezioni europee, anche l’incontro fra Confindustria e sindacati, nonostante l’appello comune lanciato per la partecipazione al voto europeo, rischia di “ripetere esauste liturgie”. Lo scrive l’esperto di relazioni industriali Giuseppe Bianchi, sulla Nota Isril n.13 del 2019. “È passato solo un anno – ricorda – dal celebrato Patto della Fabbrica e nessun contraente lo rievoca per gli scarsi risultati. Perché è infruttuoso insistere sull’ammodernamento delle regole contrattuali se non si precisano gli obiettivi da realizzare insieme. Difficile, però, pensare che nell’attuale contesto pre-elettorale si possa giungere a risultati tangibili”.
“Il salario minimo per legge, per quel 20% di lavoratori che non hanno copertura contrattuale”, è forse il provvedimento che per ora ha più probabilità di essere quanto meno definito, ma per quanto riguarda “riduzione del cuneo fiscale del lavoro e rilancio degli investimenti pubblici, gli spazi per soluzioni positive sono molto ridotti, alla luce dei vincoli interni ed europei a cui è sottoposta la nostra finanza pubblica”, dice Bianchi.
C’è solo un precedente che merita di essere ricordato, dice lo studioso: l’accordo, negli anni ’90, di fronte a un’inflazione galoppante per agganciare la dinamica dei salari e dei prezzi ai tassi di un’inflazione programmata. “Il risultato fu raggiunto anche se soprattutto a carico dei lavoratori con l’avvio di una lunga fase di moderazione salariale. Importante in tale esperienza è stato il supporto scientifico di Tarantelli e della sua scuola, che spiegò alle parti sociali le convenienze reciproche per intraprendere un tale percorso”, dice Bianchi.
“Anche oggi ci sarebbe un obiettivo condivisibile dalle parti sociali: rilanciare la produttività per riagganciarla agli standard europei”, propone Bianchi che spiega: “La produttività del lavoro dal 1995 al 2018 è cresciuta a un tasso medio annuo dello 0,38%, contro una media annua di Germania, Francia e Gran Bretagna compresa fra l’1,3% e l’1,4%. Ciò ha determinato la mancata ricchezza che ha portato al restringimento della base produttiva e del benessere della collettività nella sua componente più debole”.
Un’ipotesi potrebbe essere, insomma, quella di sostituire lo sperimentato rapporto inflazione-salari con quello produttività-salari quale vettore intorno al quale ricostruire condivise convenienze tra lavoro e capitale. Ma manca, dice Bianchi, “nel nostro Paese quella cultura della cooperazione sviluppata dalla teoria dei giochi che indica, anche nelle situazioni più conflittuali, un punto di compromesso in grado di soddisfare le reciproche aspettative”.
“Difficilmente i nostri processi contrattuali arrivano a tal punto di compromesso. Le intese raggiunte sono minimali: mediazioni sul presente, indifferenti all’obiettivo di un comune coinvolgimento per migliori risultati futuri. È ancora forte la resistenza culturale a considerare le relazioni contrattuali come strumento di crescita produttivistica quale comune obiettivo. Una causa non secondaria della nostra scarsa crescita perché, come scriveva il premio Nobel Douglass North, sono le regole del gioco condivise che esprimono le opportunità di una collettività, opportunità che le organizzazioni degli interessi devono realizzare mettendo in campo le migliori strategie”, conclude Bianchi.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright Adnkronos.