La ripresa della post pandemia è all’insegna della precarietà e della discontinuità occupazionale per le donne: sono a tempo indeterminato solo il 14% dei nuovi contratti e solo il 38% delle stabilizzazioni da altre forme contrattuali. Il 49,6% di tutti i contratti femminili, inoltre, è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. Si ampliano quindi i gap di genere (di occupazione e di retribuzione) e allo stesso tempo si acuiscono i divari territoriali: sono 4 i diversi scenari regionali per occupazione creata, livello di stabilità e numero di ore lavorate dalle donne.
È la fotografia della ripresa nel 2021, che scatta il Gender Policies Report, elaborato dalla Struttura Mercato del Lavoro dell’INAPP e presentato questa mattina all’Auditorium dell’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche. Il Rapporto, diviso in 9 capitoli, spazia dal contesto demografico al mercato del lavoro, per concentrarsi su un’analisi delle principali politiche innovative in ottica di genere (PNRR e gender procurement) e del sistema di relazioni industriali in prospettiva di genere.
“In questo anno e mezzo di pandemia le donne hanno dovuto affrontare uno stress test particolare dovendo moltiplicare gli sforzi e spesso trovandosi di fronte al bivio di scegliere tra lavoro e famiglia – ha spiegato il prof. Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP – L’aumento delle diseguaglianze di genere è cresciuto e parte da un dato strutturale dell’occupazione che vede al 67,8% il tasso di occupazione degli uomini e al 49,5% quello delle donne. È chiaro che la pandemia non ha fatto che allargare questo divario, per questo occorre intervenire non tanto con bonus o iniziative spot ma iniziando a adottare, sin dalla fase di progettazione, una valutazione di quali possono essere gli effetti su uomini e donne di politiche concepite come universali e quindi neutre. Un metodo e una sfida che l’Europa ci chiede dal 2006 e che di recente ha ribadito lo stesso Parlamento europeo nella Risoluzione sul Next Generation EU. Purtroppo, la questione della scarsa quantità e qualità dell’occupazione femminile nel nostro Paese continua ad essere percepita come una questione di parte: la questione non è solo di pari opportunità di genere, ma di sviluppo economico di un Paese che continua a lasciare in panchina metà della sua formazione vincente”.
Andando ad esaminare il Rapporto si evidenzia come nel primo semestre del 2021 (ma la tendenza è in atto anche per i mesi successivi) i nuovi contratti attivati sono 3.322.634 di cui 2.006.617 a uomini e 1.316.017, (ossia il 39,6% del totale) a donne. Il 35,5% sono rivolti a giovani under 30, mentre oltre il 45% si colloca tra i 30 e i 50 anni senza rilevanti differenze di genere. Prevalgono per entrambi le forme contrattuali a termine, ma l’incidenza della precarietà e discontinuità per le donne è maggiore, con un ruolo prevalente della piccola impresa fino a 15 dipendenti.
La ripresa inoltre non avviene alla stessa velocita e con lo stesso modello in tutte le regioni italiane. Dato comune è che in tutte le regioni i contratti stipulati a donne sono sempre inferiori a quelli degli uomini: le donne sono un terzo del totale in Basilicata, Sicilia e Calabria. Sono sotto il 40% in Calabria, Molise, Puglia, Lombardia, Abruzzo e Lazio; tutte le altre si collocano tra il 41% e il 46,5%. L’ incidenza più elevata viene registrata in Trentino Alto Adige. Rispetto alla “quantità” di nuova occupazione creata, l’Italia presenta 4 scenari diversi: Con oltre i 100.000 contratti a donne si collocano Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto; dalle 50.000 alle 100.000 attivazioni Toscana, Piemonte, Campania, Puglia e Sicilia; dai 15000 ai 99.000 contratti a donne: Trentino A. Adige, Marche, Sardegna, Liguria, Abruzzo, Friuli, Calabria e Umbria e al di sotto delle 15.000 attivazioni sono Basilicata, Valle d’Aosta e Molise. “Ma – si legge nel Rapporto – “se si associa questo dato alla percentuale di stabilità e alla quota di part time (v. figura), si evidenzia che maggiore occupazione non sempre determina automaticamente maggiore stabilità o maggiore redditività. Per questo è importante guardare alla ripresa nelle sue reali potenzialità di sostenere una buona occupazione nel lungo periodo”.
Questo scenario presenta, al momento, una conferma e una sorpresa: la conferma a livello regionale, del dato nazionale circa il traino sull’occupazione creata dalle forme a termine e discontinue e dall’elevata presenza del tempo parziale come condizione di ingresso. La sorpresa è il ruolo delle Regioni del Mezzogiorno, che pur a fronte di un numero di attivazioni al di sotto delle 80.000 unità presentano un’incidenza del tempo indeterminato superiore alla media nazionale e superiore a quella di diverse regioni del Centro nord. Meno contratti e più stabili, testimonierebbe il caso della Campania ad esempio con oltre 75 mila contratti e il 21,4% a tempo indeterminato. O la Sicilia con 59.230 contratti di cui il 17,7% a tempo indeterminato o la Calabria, in cui i 20.373 contratti presentano una quota stabile del 18%. “Attenzione tuttavia, ad un dato che riduce l’ottimismo – concludono i ricercatori e le ricercatrici – Proprio in queste regioni, accanto alla ridotta nuova occupazione continua a registrarsi la quota di tempo parziale femminile tra le più alte d’Italia”, fattore che rappresenta una delle cause dei già elevati differenziali retributivi tra uomini e donne.